Nello spazio nessuno può sentirti urlare. Ma in una sala cinematografica, sì.
Ed era quello che temevo che mi sarebbe accaduto all’anteprima di Alien: Romulus, dilaniato dalla visione di un film che non solo non sapesse reggere il confronto con la saga originale, ma che addirittura la infangasse. Mi sbagliavo. Fede Álvarez (regista di questo nuovo capitolo, attualmente in sala) si dimostra un fan appassionato, conoscitore dei capolavori che hanno costruito il mito dello xenomorfo, a cui cerca di rendere omaggio intelligentemente. Perché il film non è solo una raccolta di strizzatine d’occhio citazioniste ai cultori del franchise – cioè, di fanservice ce n’è, per carità, ma non è solo quello. Álvarez è totalmente a suo agio, sguazza, salta e sgambetta come un facehugger pimpante. E, come il parassita alieno, vuole far nascere qualcosa di nuovo.
Ma andiamo con ordine. Alien: Romulus si presenta come un interquel, posizionandosi cronologicamente tra Alien, il primo capitolo del 1979, e Aliens, il secondo del 1986. Non a caso il prologo si apre con un’astronave che scivola rapidamente silenziosa nelle profondità astrali (un evidente déjà vu dall’incipit del film di Ridley Scott), fino a intercettare proprio i resti della Nostromo, il cargo spaziale fatto esplodere dalla mitica Ellen Ripley (Sigourney Weaver) al termine della prima pellicola.
Eppure nonostante i continui richiami, la trama di Romulus è da standalone, perfettamente fruibile anche da un pubblico che si approccia per la prima volta alla saga. Infatti il nuovo equipaggio di protagonisti è composto esclusivamente da personaggi inediti (eccezion fatta per l’alieno – ça va sans dire – e uno special guest – no spoiler – riportato in vita dalla CGI – che obiettivamente potevano risparmiarsi), un gruppo di giovani operai in fuga dalla Jackson’s Star, un’infernale colonia mineraria. Bastano poche scene ambientate su questa terra retro-futuristica decadente (che sa molto di Blade Runner, altro pezzo da novanta di Scott), per comprendere la vita opprimente di questi ragazzi, in particolar modo di Rain (Cailee Spaeny) e di Andy (David Jonsson), una sorella e un fratello che si sono adottati a vicenda: lei umana, lui androide. I due, insieme ad altri esponenti di questa Gen Z sottoproletaria, in cerca di capsule di stasi criogeniche per evadere su pianeti più accoglienti, andranno a saccheggiare una stazione spaziale alla deriva, la Renaissance, divisa in due sezioni, Romulus e Remus. La leggenda della fondazione di Roma sottolinea l’importanza del rapporto tra Rain e Andy e di come l’androide (potenziale Romolo) si ritroverà presto a scegliere tra quanto imposto amoralmente dai suoi chip e il sentimento d’amore puro, quasi infantile, che lo lega alla sorella.
Ma se ci sono Romolo e Remo, ci deve essere anche una lupa. C’è, sì, anche più di una: hanno i denti affilati e, in un certo qual modo, allattano gli umani per far sorgere una nuova civiltà. È la natura di Alien: fecondazione, morte e rinascita. E la Renaissance (appunto), dove i giovani protagonisti speravano di risorgere riscattando il loro futuro, diventerà la loro tomba.
Ritroviamo così la fantascienza sporca e claustrofobica del film del 1979: vuoti corridoi inquietanti e viscere biomeccaniche si aprono per maciullare e digerire i malcapitati, metafora di quel capitalismo rappresentato in tutti i capitoli dalla spietata e onnipresente Weyland-Yutani Corporation. In Romulus i protagonisti sembrano i nipoti dell’equipaggio della Nostromo, una gioventù maggiormente schiacciata dagli ingranaggi, costretta a perdere ogni traccia di umanità. E di fatti per sopravvivere contro le creature che infestano la Renaissance dovranno reprimere la paura e trattenere le reazioni fisiche più elementari(perfino la pelle d’oca), come se fossero delle macchine. Ma ai momenti di tensione e angoscia, memori dell’Alien di Ridley Scott, si passa velocemente anche all’azione e alla suspense dell’Aliens di James Cameron. A maggior ragione Romulus va così considerato un interquel, non solo dal punto di vista dei fatti narrati, ma anche per il buon equilibrio con cui Álvarez cerca di bilanciare l’elegante e tesa fluidità registica del primo capitolo e la visionarietà action del secondo (ovviamente senza mai toccare le vette degli originali, sia chiaro). E si risentono echi persino del Jeunet di Alien – La clonazione. Ci si affranca solo dalle pretese metafisico-esistenziali di Prometheus e Alien: Covenant. Il ritmo regge e Álvarez brilla quando prende il coraggio di uscire maggiormente dal seminato. Ad esempio, l’iconico design della creatura di H.R. Giger, che mescola organico e meccanico, ha evidenti richiami sessuali e il regista qui se ne serve ampliandone l’immaginario, aprendo nuovi squarci sulla sua evoluzione.
E torniamo così a un nodo nevralgico della saga, quello della maternità. Le metafore di penetrazione e fecondazione abbondano e sono sempre angoscianti e dolorose. Più della Ripley di Alien, che fronteggia Mother, il computer di bordo della Nostromo; più della Ripley di Aliens, nel combattimento con esoscheletro contro la regina, produttrice delle uova che stanno colonizzando il pianeta; più della Ripley di Alien 3 che incuba dentro di sé una regina; più della Ripley di Alien – La clonazione contro l’ibrido umano-xenomorfo che la identifica come madre surrogata: più di tutte loro, i protagonisti di Romulus si fanno carico di una delle ansie più forti di questo tempo. Perché, oggi più che mai, in un mondo tanto instabile, dare la vita non è per forza qualcosa di bello. Anzi. E a chi lo fa gli va riconosciuta una certa dose di coraggio.
Fecondazione. Morte. Rinascita. Alla fine è lo stesso che Hollywood fa con questi film. Sembra che sia tutto morto. Silenzio di tomba. E poi… e meno male che nello spazio nessuno può sentirti urlare!
Recensione scritta da Francesco Guarnori di Remake all’italiana
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