Il 5 giugno 2024 è andato in scena al Teatro Gerolamo di Milano lo spettacolo Bestiario Pop, un riadattamento live dell’omonima pubblicazione edita l’anno scorso da Readaction, e del videocast di interviste musicali realizzato in collaborazione con Billboard Italia. Il comune denominatore è sempre lo stesso, la creazione di un parallelismo tra il mondo animale e la fauna musicale contemporanea. Come nel medioevo i miniaturisti illustravano i bestiari, opere in cui venivano descritti animali reali o immaginari per trarne insegnamenti religiosi e morali, così Michele Monina ci guida in una giungla di artisti, discografici e promoter, con l’intento di fare luce sul panorama musicale nostrano con beffarda ironia e concretezza. Il punto di partenza è buono e la splendida cornice del Gerolamo (intimo teatro milanese di metà Ottocento, da pochi anni riaperto al pubblico dopo un lungo restauro conservativo) promette ancora meglio. E invece…
Monina, «il critico musicale più irriverente d’Italia – o meglio, è così che si presenta nella sua raccolta di racconti – colui che con le sue inchieste ha fatto tremare i palazzi della musica, e che con le sue recensioni ironiche ha fatto pelo e contropelo ai BIG della canzone», pare saperne in fatto di musica. Ma di messa in scena proprio no. Più che uno spettacolo è un reading di testi dell’autore, affidati non ad attori professionisti, ma a suoi amici musicisti e colleghi (per la precisione Luccioola aka Lucia Monina, figlia di Michele e co-conduttrice del podcast video; due esponenti del gruppo pop punk le Bambole di Pezza; i cantautori Andrea Mirò e Francesco Baccini), tutte e tutti sicuramente molto legati in prima persona ai temi trattati, ma non con sufficiente esperienza per misurarsi con monologhi così impegnativi. Il coinvolgimento di “addetti ai lavori” è sicuramente una bella idea, ma là dove viene offerta loro l’opportunità di parlare con la propria voce (come appunto accedeva nel videocast).
Perché la prosa di Monina è strabordante, difficile da controllare, troppo spesso ammiccante, con un certo autocompiacimento per la provocazione e la propria ironia caotica. Così ci si ritrova in balia di lemuri fieri del proprio dito medio (che non si fanno piegare da mode o regole di mercato), di milioni di mosche coprofoghe (che, parafrasando Marcello Marchesi, amano musica di merda), di uomini che spendono 15 mila euro per diventare un collie (il celebre caso di Toko-San), metafora di una disforia di genere, di specie e – perché no – musicale.
Elementi che, salvo un attore, risulterebbero gestibili solo da Monina stesso. E di fatti quando lui apre e chiude lo
spettacolo non legge, ma galleggia, completamente a suo agio, in quel fiume in piena del suo stream of consciousness.
Ironia della sorte, tra tutte queste parole, è proprio la musica a salvare lo spettatore in difficoltà. È quella della band che accompagna la brava cantante Valentina Parisse, che, tra un monologo e l’altro, si esibisce in interessanti cover, spaziando da Rino Gaetano a Jovanotti.