Hollywood, Los Angeles, Febbraio 1969.
La primavera californiana è alle porte, così come la summer of love, la radio passa Bring a Little Lovin’, dei Los Bravos ed Hollywood, si è ormai consacrata come la capitale occidentale e mondiale del cinema delle star, con tutte le sue bellezze e contraddizioni. Qui vivono i protagonisti del nono film di Quentin Tarantino, Richard Dalton (Leonardo Di Caprio) e Cliff Booth (Brad Pitt), rispettivamente una star non troppo famosa del cinema, relegata al ruolo del cattivo in tutte le pellicole che lo vedono protagonista, persona non troppo felice del suo status, che vede la sua carriera sul viale del tramonto, con il rischio di rimanere imprigionato nel ruolo di quello che le ha “sempre prese” sul set, quello che non vince mai in poche parole. Poi c’è Cliff, la sua controfigura sul set. Un eroe di guerra, che, oltre che stunt-man e controfigura di Rick, gli fa anche da “balia”, in quanto, l’attore, alle prese con una profonda crisi personale e professionale, inghiottito dal suo destino, si affida a lui per ogni cosa, dal servizio autista (a Rick è stata revocata la patente per stato di ebbrezza) fino alla manutenzione della sua villa a Cielo Drive, luogo famoso per il massacro ordinato da Charles Manson ai suoi seguaci in quello stesso anno.
Il loro rapporto però, è più che un’amicizia: sono più che fratelli e poco meno che marito e moglie. I due attraversano insieme gli anni d’oro del successo di Rick, fatto di alto e bassi, ma sempre insieme, prendendosi cura l’uno dell’altro, nonostante che l’attore viva nel lusso, mentre il maturo e bellissimo stunt-man viva a ridosso di un drive-in dentro ad una roulotte, con il suo cane. Due vite diverse dunque, ma legate da questo rapporto che li unisce.
Un altro personaggio importante, che si collegherà alle vite dei protagonisti, è la bella Sharon Tate (Margot Robbie), moglie di un giovane regista polacco, che, suo malgrado, passerà alle luci della ribalta non solo per i successi ottenuti come artista.
Nel film, sono presenti anche altre leggende del red carpet di quegli anni, Steve McQueen, Roman Polanski (marito di Sharon) e Bruce Lee, fino al terribile Charles Manson, ma, in assoluto, tutti gli interpreti offrono parti molto ben riuscite e credibili, dalla ragazza al botteghino del cinema, ai colleghi attori di Rick, passando per un Al Pacino versione magnate, tutti i personaggi sono davvero ben caratterizzati e molto profondi.
La trama, ruota attorno alle giornate tipo dell’epoca Hollywoodiana: eccessi, alcool, belle ville (Rick vive a Cielo Drive…) e tutto quello che caratterizza quell’epoca, dagli hippie capelloni, alle sigarette (tantissime) fumate nei cinema e sugli aerei, fino ai locali più esclusivi di quel paradiso per ricchi e famosi attori ed attrici del momento, dai grossi calibri fino alle “stelline”, una ricostruzione maniacale dei dettagli e una recitazione magistrale di Leo, Brad e tutto il cast, rendono questa narrazione cinematografica davvero strepitosa. Da grande fan di Tarantino, azzardo una considerazione personale: escludendo la pietra miliare Pulp Fiction, film peraltro completamente diverso da questo, posso affermare che a livello tecnico, questo C’era una volta a Hollywood, sia davvero il lascito del regista al mondo del cinema. Forse anche qualcosa in più. La pellicola, è un messaggio d’amore di Quentin al mondo del cinema, è ricco di riferimenti a questo universo, che scorrono sotto i nostri occhi con estrema semplicità e comprensibilità, il film riesce a farci respirare quello che è il lavoro di attore a quei livelli, con i suoi limiti ed i suoi eccessi, fatti di sbronze, ore di registrazione, dualismi con i colleghi, feste esclusive, truccatrici, costumisti e tutto ciò che succede dietro ad una cinepresa, tanto bello quanto fatiscente dunque.
Personalmente, consiglio vivamente la visione di questo film a tutti gli appassionati di cinema, però vi avverto, non andate in sala con la pretesa di vedere il nuovo Pulp Fiction, perché, come detto prima, il genere è completamente diverso e la trama, legata comunque ad una realtà, quella Holliwoodiana dell’epoca, impone una certa linea temporale, che il regista segue, rispetta, ma, come da suo stile, reinterpreta. Si può affermare che sia un vero e proprio ritratto storico, ed in ogni suo aspetto, viene riproposto con esattezza il minimo dettaglio, dalle ragazze con i peli sotto le ascelle, agli hippies che offrono servizi sessuali in cambio di autostop, fino ai vestiti ed ai costumi del tempo.
Anche la musica, altro marchio di fabbrica, è totalmente inerente e risulta molto ben collocata all’interno del film, come da tradizione. Quindi, se siete curiosi di vedere con i vostri occhi questa cartolina retrò californiana, spedita dal regista sul grande schermo, andate al cinema, rimarrete sicuramente soddisfatti.
ATTENZIONE: la seguente parte, è riservata solo ed esclusivamente a chi ha già visto il film, andremo infatti a parlare dello sviluppo del film e della trama, che porta la firma del grande regista americano….
Da dove partiamo? Volendo cercare per forza un parallelismo con gli altri 8 film del regista, potremmo affermare che quello più simile, per reinterpretazione personale, è senz’altro Bastardi senza gloria, film del 2009, dove, come in questo caso, la storia si sviluppa su eventi successi realmente, ma subisce uno stravolgimento epico nel suo finale, riscrivendo gli eventi, facendo sì, in entrambi i film, che siano i buoni a vincere.
Inutile nascondere che tutti noi, ci aspettavamo di vedere il massacro di Cielo Drive alla fine del film, cosa che però non succede, rendendo personale la chiusura del film, ponendo l’accento sulla casualità, infatti, Tex e gli altri adepti di Manson, si dirigono lì per uccidere la famiglia Polansky, ma, per una serie casuale di eventi, si imbattono in un Rick palesemente ubriaco, che esce di casa urlando e inveendo verso l’auto con a bordo i 4 hippie, scatenando in loro la rabbia e la voglia di vendetta verso coloro che “hanno insegnato, attraverso il cinema, ad uccidere il prossimo”.
Ma “C’era una volta a Hollywood”, è anche Django, Le Iene, Kill Bill, per certi aspetti Jackie Brown, una sintesi di tutti quei concetti di cinema che il regista esprime da sempre. Non mancano naturalmente gli ingredienti splatter, altra topica di Tarantino, la scena finale con il lanciafiamme infatti, è pregna di violenza e cattiveria, senza risparmiarsi su nulla, restando però l’unica scena di questo tipo all’interno del film, ad eccezione di quelle dove Rick recita ovviamente. I continui cambi di camera, le inquadrature dentro la tv, gli spot girati in bianco e nero, ma anche i primi piani e le sequenze in grandangolo, rendono molto ricercato il lavoro del regista e garantiscono un’esperienza visiva eccezionale.
Chiunque ami Tarantino, saprà sicuramente godere di questa grande opera rivolta al mondo del cinema, che si scontra con realtà molto promiscue tra loro, affronta molti temi psicologici (la scena di Rick che si immagina nei panni di Steve McQueen ne “la grande fuga” è bellissima) e sociali, senza però perdere mai quell’impronta inconfondibile che Quentin sa lasciare in ogni suo film. E poi ci sono i dettagli… Che bello vedere gli ombrelloni nei cocktail bar di Hollywood con la scritta Cinzano, oppure i manifesti dei film con Claudia Cardinale, il film è ricolmo di Italia ed italianità, tanto da far sposare Rick con una ragazza italiana, o da citare in modo velato, quello che lui considera uno dei più grandi registi della storia, Sergio Leone, dandogli un cognome fittizio. Il modo di vivere del movimento hippies, capelloni e con i piedi scalzi, è riproposto in maniera incredibilmente convincente e coinvolgente, così come è coinvolgente lo smarrimento che si prova quando Cliff entra nella casa del vecchio proprietario del ranch, dove da un momento all’altro, è lecito aspettarsi il peggio, mentre invece…
Come detto sopra, escludendo Pulp Fiction, questo verrà probabilmente ricordato come il miglior film di Tarantino. Splendida esperienza visiva e narrativa, consigliatissimo.