«Questa è una strana, brutta storia. Una storia di predatori. Famelici coyote, travestiti da pecore indifese. Anzi, peggio: da cani pastore». Se questa storia fosse una trasmissione televisiva, sarebbe una puntata di Blu Notte. Ma al centro dello studio, a muoversi tra coni d’ombra e freddi tagli di luce, non c’è Carlo Lucarelli. Ma Martin Scorsese.
«Oklahoma. Anni Venti. La ricca nativo-americana Mollie Burkhart è nel letto di casa sua, ansimante, incapace di muoversi ormai da giorni». Una sagoma di cartone si illumina a fianco del nostro narratore: ha il volto di Lily Gladstone, gli occhi profondi, permeati da una dolce tristezza, il corpo cinto da una coperta colorata, la cosiddetta manta.
«Questa coperta è come un bersaglio. Sulle nostre schiene. Lo dice Mollie a suo marito, Ernest, reduce della Grande Guerra, il quale si sta amorevolmente prendendo cura di lei. Perché sua moglie è diabetica e ha bisogno di costanti iniezioni di insulina. Ma chi ce l’ha con loro? E per quale ragione? Può forse c’entrare il fatto che Mollie è Osage?» Ed ecco svelarsi alla destra di Martin un pannello di vetro, la scritta Osage Nation sopra una foto d’epoca color seppia: nativi americani orgogliosamente fieri, con loro abiti tipici contaminati dalla moda occidentale, a fianco a omini impomatati, in giacca e cravatta. Uno di questi è Calvin Coolidge. Presidente degli Stati Uniti.
«Gli Osage. Un popolo che si ritrova inaspettatamente ricco, per via degli immensi giacimenti di petrolio che vengono scoperti nei loro terreni. Petrolio, sì. L’oro nero». La musica di sottofondo cresce, facendo vibrare cupamente i bassi. «E quell’improvviso benessere attira l’attenzione degli uomini bianchi. Uomini come William Hale». Sul fondo dello studio si apre uno squarcio nel buio, rivelando un altro cartonato, quello di Robert De Niro, in completo chiaro, gli occhiali dalla
montatura tonda, il sorriso contratto in una smorfia. «Hale, che tutti chiamano King, è un grande proprietario terriero e allevatore di bestiame. È amato e rispettato dalla sua comunità, come dal popolo Osage. Eppure nasconde un segreto oscuro. Qualcosa che ha a che vedere con estorsioni, matrimoni strategici e spietati omicidi. Un complotto sanguinario che mira unicamente a sottrarre i beni ai nativi. È il “Regno del Terrore”».
La musica si placa. Martin, lo sguardo contrito, è ora seduto a una scrivania. «Ma torniamo a Mollie. Ricordate? L’avevamo lasciata su quel materasso grondante di sudore, squassata dalla malattia. Mollie farnetica, ha delle visioni: ricorda la madre, deceduta per una strana consunzione, le sorelle, anche loro misteriosamente morte, una dopo l’altra. Ernest le si avvicina premuroso, in mano una siringa. Ernest, che è suo marito, sì, ma anche il nipote di William Hale». Un accordo
d’archi e un ultimo cono di luce fa stagliare la sagoma di Leonardo Di Caprio, gli unti capelli imbalsamati in una riga in mezzo, la bocca incurvata a svelare denti gialli e taglienti. «Perché Ernest sposando Mollie ha sposato anche il suo patrimonio. E forse – forse – quell’insulina che le sta iniettando nella coscia tumefatta, non è solo insulina». La musica esplode in un boato. E io mi sveglio.
È ancora notte. Scosto le lenzuola, mi alzo. E mentre mi verso un bicchiere d’acqua fresca, penso che Killers of the Flower Moon è molto più di un True Crime. Certo, il punto di partenza è l’omonimo saggio del giornalista David Grann, che ha saputo ricostruire uno sconvolgente spaccato di Storia americana ben poco nota. Ma nel film c’è anche l’ambizione di raccontare le origini di una nazione (parafrasando – e parecchio – Griffith, The Birth of a Nation), fondata su cinico opportunismo, sangue (per dirla alla Anderson, There Will Be Blood) e denaro (per dirla alla von Stroheim, Greed). “I just love money! – sghignazza un irriconoscibile Di Caprio, tramutatosi in un enigmatico idiota – I love it as much as I love my wife!” Strumento ambiguamente inconsapevole nelle mani del mefistofelico zio, Ernest è dilaniato dall’amore puro e incondizionato di Mollie. Al punto da chiedersi fino all’ultimo da che parte deciderà di schierarsi.
Quindi molto più di un True Crime. Perché la pellicola giustamente parte dal mero fatto di cronaca per raccontare molto altro. E – per inciso – nel variegato panorama del genere (tra podcast, romanzi e serie tv) non è per niente scontato. Un disincantato affresco di una delle tappe fondative degli Stati Uniti. Un viaggio nell’animo umano. E poi, bhè, è Scorsese. È puro Cinema.
Torno a letto. Chiudo gli occhi. Ripenso a Lucarelli. «Se questa storia fosse un film, sarebbe un western. Ma anche un noir. Se questa storia fosse un film, sarebbe un film di Martin Scorsese».
Recensione scritta da Francesco Guarnori di Remake all’italiana
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