«Me he pasado la vida siendo un poco hijo de puta, pero hoy creo que me apetece morir con dignidad.» Così si sacrificava Berlino, membro chiave della banda che rapinava la Zecca di Stato spagnola, al termine della seconda stagione de “La Casa de Papel”. Consapevole che la malattia terminale gli avrebbe lasciato ben poco da vivere, per offrire ai compagni minuti preziosi per fuggire, si scaglia a mitra spianato contro la squadra antisommossa della polizia: e sulle note malinconiche di Bella Ciao, lo vediamo immolarsi, in uno slow-motion cristologico, attraversato da puntatori laser e sangue.
Narcisista, accentratore, glaciale e sofisticato, Andrés De Fonollosa, meglio noto con il nome in codice Berlino, ha subito conquistato il pubblico, grazie all’interpretazione magnetica di Pedro Alonso. E questo aspetto non è sfuggito a Netflix che, non solo ha acquistato la serie da Antenna 3, per cui inizialmente era stata realizzata, ma ne ha preso il controllo impostandone un vero e proprio franchise. E ha riportato in vita il nostro hijo de puta. No, caro Berlino, non morirai con dignità, puoi starne certo.
Bisogna riconoscere che Netflix, nel lontano 2017, c’aveva visto lungo: ha saputo individuare un ottimo prodotto di intrattenimento, specificatamente spagnolo (anche un po’ da cartolina – per citarne una, la maschera di Dalí), ma dal sapore internazionale (a partire dal genere – l’heist movie- la regia action, il look and feel). E grazie a questo binomio, “La Casa di Carta” (distribuita sul colosso streaming principalmente con il titolo “Money Heist”) ha conquistato il mondo. Ma questo non bastava. Serviva una nuova stagione. Anzi due. Meglio, tre.
Con sempre alla guida il suo autore, Álex Pina, la banda del Professore si ritrova coinvolta in una nuova rapina, questa volta alla Banca di Spagna. Ma la sensazione di déja-vu anziché risultare piacevole, annoia. La sospensione dell’incredulità viene sempre più messa alla prova, le parentesi amorose tra i personaggi risultano forzate e soprattutto c’è un redivivo Berlino che si intromette inutilmente nella progressione della trama. Perché per quanto lo spettatore frema dal desiderio di assistere alle successive mosse nell’attuazione del piano, è invece costretto a immergersi in strabordanti flashback sul passato dei due fratelli Sergio (il Professore) e Andrés e che soprattutto giustifichino in qualche modo la sua presenza. D’altronde cosa era piaciuto nelle prime due stagioni? Berlino che fa lo spaccone. Berlino amatore misogino. Berlino che canta in italiano. E allora rieccolo, edonista e mefistofelico, a cantare Umberto Tozzi al suo matrimonio in un convento in Toscana. Forse forse era più dignitoso farlo resuscitare con una maledizione zombie. Sicuramente sarebbe stato più innovativo.
Per carità, la terza, quarta e quinta stagione de “La Casa di Carta” avevano anche altri grossi problemi. Per primo il vincolo di ripetere lo schema che era stato introdotto nella versione originale di Antenna 3 (i rapinatori chiusi in un luogo, insieme agli ostaggi, le tensioni di un microcosmo destinato a implodere, stretto nella morsa esterna delle Forze dell’Ordine). Un sequel per funzionare avrebbe dovuto aver il coraggio di distaccarsi maggiormente dal primo colpo. Ma per fortuna esistono anche i prequel. Prequel spin-off per giunta. Quindi una seconda possibilità di riscatto per Álex Pina e soprattutto un ritorno più decoroso del personaggio di Berlino.
Tutto prometteva bene: nuova banda (il bravo ragazzo Roi, discepolo di Berlino, nonché suo consigliere amoroso; l’amico Damián; la nerd Keila – pseudo Velma di Scooby-Doo; il tamarro Bruce; la leonessa Cameron – un po’ Tokyo, un po’ Nairobi), nuova ambientazione (Parigi), nuovo colpo (la casa d’aste più importante della capitale, per un furto di gioielli con un valore complessivo di 44 milioni di euro). Il problema è che il piano è troppo semplice. Il numero di magia davanti a cui ci si aspetta di rimanere incantati delude perché troppo basilare. E anche la complicazione sentimentale che vede Berlino intrecciare una relazione con Camille, la moglie del direttore della casa d’aste, non è sufficiente.
Non che si ambisse alla spettacolarità divertente e divertita degli “Ocean’s” di Soderbergh, ma (rimanendo nella stessa città – e con la stessa produzione), almeno la classe del “Lupin” con Omar Sy di Netflix (Francia, non Spagna). Per esser stata usata un’accetta, i personaggi non sono scolpiti poi così male: il punto però è che le loro backstory (tutte rigorosamente a sfondo amoroso) poco si uniformano con il contesto narrativo (tanto per citarne una, quella di Cameron, che durante il liceo è rimasta scottata da un’ardente storia d’amore con un celebre cantante pop). È vero, il tema centrale della serie è l’amore («L’amore è come uno tsunami, una forza irrefrenabile che ti travolge») e potenzialmente dovrebbe essere la vera adrenalina della storia, più forte di quella che produce qualsiasi furto. Ma la tensione sentimentale manca e i personaggi si ritrovano ad agire come delle stupide marionette in un Harmony, travestito da Diabolik.
Peccato. Un’occasione mancata. Però su una cosa potete stare certi: Berlino canterà ancora in italiano. Senti nell’aria c’è già la nostra canzone d’amore che va…
Recensione scritta da Francesco Guarnori di Remake all’italiana
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