Un mito. No, non è un complimento. E neanche una citazione a una canzone degli 883. No, mi riferisco al mito, quella forma di narrazione fantastica, dal valore simbolico, con eroi e mostri, gesta avvincenti e drammi dilanianti, che spesso cerca di rispondere a domande esistenziali. Massì, avete capito, il mito di Teseo e Arianna, per dirne uno. O il mito della Genesi del mondo.
Ecco, George Miller con il suo ultimo film, “Furiosa – A Mad Max Saga” fa questo, cesella un mito. Perché il quinto capitolo della serie di film non è solo un prequel spin-off sul personaggio comparso in “Mad Max: Fury Road”. Né la sua banalissima origin story. È molto di più.
È un mito concepito in un universo post-apocalittico, la cui Storia viene tramandata oralmente. Quello dell’Imperatrice Furiosa e di come divenne tale. È proprio un History Man (detentore della conoscenza passata, con il corpo rugoso completamente intarsiato di scritte) a narrarlo, tramite la sua voce fuori campo. Non a caso “mito” (dal grec mỳthos) significa parola, racconto. E, come il genere richiede, la vicenda deve essere avventurosa, piena di colpi di scena, ma al contempo semplice e chiara, così come lo sono i suoi personaggi. Partiamo quindi dall’inizio.
Genesi, si era detto, no? Bene, la terra dove vive inizialmente la piccola Furiosa ricorda inevitabilmente l’Eden. Il Luogo Verde delle Molte Madri è una culla segreta, fertile e pacifica, custodita da una tribù matriarcale. La bambina si arrampica agilmente su una pianta e ne coglie un frutto: una pesca. Sarebbe scorretto riferirsi a quest’ultima come al “frutto proibito”, in quanto tecnicamente in questa Genesi non c’è alcun divieto. Ma è anche vero che l’albero di Adamo ed Eva era detto della conoscenza del bene e del male.
E, guarda un po’, è proprio allora che irrompe il Male nella vita di Furiosa. Rapita da un manipolo di motociclisti, giunti per caso nel Luogo Verde, viene strappata dalla sua terra natale. In pugno al folle Signore della Guerra Dementus (un Chris Hemsworth, un po’ vichingo, un po’ Jack Sparrow) e alla sua Orda, la giovane Furiosa attraverserà le Terre Desolate, fino a imbattersi nella Cittadella presieduta da Immortan Joe (vecchia conoscenza di “Fury Road”). I due tiranni, assetati di potere, entreranno presto in conflitto, mentre la nostra, diventata donna (Anya Taylor-Joy, con i suoi enormi occhi ricolmi di dolore), cercherà di sopravvivere, elaborando un piano di rivalsa.
Ma torniamo al mito. Non dobbiamo pensare che questo tipo di narrazione sia distaccata dalla realtà: quello di Miller è un mito materico, corporeo, estremamente concreto. Terra e carne, oli bituminosi e sangue, polvere e sudore, pistoni arrugginiti ed escrescenze tumorali. Natura e Uomo (legame spesso al centro dell’indagine di moltissimi miti) si compenetrano, la degradazione dell’uno si ripercuote sull’altro e viceversa. E così come Dafne, in fuga da Apollo, si trasforma in pianta di alloro, Miller muta il corpo di Furiosa. Ma anziché ricongiungerla alla Natura, nel suo mito post-moderno e post-apocalittico, la allontana diametralmente da essa.
Cinta da catene, privata della libertà, non sarà più Ninfa. Nasconderà il suo essere donna, tagliandosi a zero i capelli. E diventerà meno umana e più macchina, tranciando il proprio braccio e poi sostituendolo con una protesi steampunk, estensione dei motori che cavalca. Nulla rimarrà più di quella bambina che a inizio film coglieva frutta da un albero. La pesca sarà spolpata dalla Wasteland, una terra mutilata come la nostra eroina, un mondo senza pietà, arido d’acqua come di buoni sentimenti, ruvido come la sabbia che ti scava il volto e ti riempie le narici. Un luogo dominato da un patriarcato ottuso e perverso (non è un caso che Dementus, autodichiaratosi padre della piccola Furiosa, poi si strappi i capezzoli, simbolo di una maternità impossibile). Della pesca rimarrà solo un nòcciolo avvizzito. Eppure sarà proprio da questa reliquia che Furiosa farà crescere il germoglio della sua vendetta.
Non voglio fare spoiler sul finale, ci mancherebbe. Ma, come in tutti i miti, soprattutto quelli orali, niente è definitivo: di narrazione in narrazione, la storia può subire delle varianti, si sa. «We are the already dead, Little D, you and me!» urla sguaiato Dementus di fronte alla nostra protagonista. Il loro destino pare essere già scritto: tutto dipende da come lo si vuole raccontare.
Perché è questo il punto, la narrazione di Miller. Il Cinema nella sua essenza più spettacolare. Un regista che, con i suoi 79 anni sul groppone, padroneggia ancora il mezzo con maestria e versatilità. Lui stesso con il primo “Mad Max” del lontano 1979 aveva posto le regole del gioco e, di produzione in produzione, è andato a rielaborarle, pur rimanendo fedele alla propria estetica. Ad esempio, l’uso della CGI, per quanto molto presente, è stato limitato, lavorando soprattutto con team di stunt nell’elaborazione di coreografie sempre più sorprendenti. Ovviamente i richiami ai grandi classici non mancano (si pensi all’inseguimento iniziale a cavallo, memore dei western, o alla biga – trainata però da moto, non da cavalli – di Dementus, che inevitabilmente evoca Ben-Hur e il genere peplum). Ma è nell’uso della macchina da presa che Miller lascia senza fiato: la camera avanza dirompente, da un campo lungo la spinge a un primissimo piano, come in uno scatto di cambio di marcia. Danze rabbiose tra dune e cielo esplodono con colori incandescenti sullo schermo, trascinando lo spettatore su un rollercoaster adrenalinico.
E dire che in passato si era dedicato invece alle favole (sì, in stile La Fontaine), con gli animali parlanti di “Babe va in città” (1998) e i pinguini ballerini di “Happy Feet” (2006). Per fortuna ha riscoperto il mito. Se Ovidio avesse avuto un cinema sotto casa, probabilmente avrebbe apprezzato.
Recensione scritta da Francesco Guarnori di Remake all’italiana
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