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Quest’oggi, in questo nuovo pezzo, mi dò il cambio con il nostro Gabriele nel parlare di Hideo Kojima e più specificatamente della saga di Metal Gear, da me non particolarmente amata rispetto al resto del globo terracqueo. Mi rendo conto che qualcuno tra voi non prenderà molto bene certe affermazioni che seguiranno da qui a poco, ma il bello della critica videoludica è anche riuscire a guardare dietro lo specchio per vedere cosa non va in un prodotto. Una dinamica che permette il confronto, facendo crescere chi ha la buona volontà di parteciparvi.
OSCILLARE TRA PERFEZIONISMO ED ESAGERAZIONE
La narrativa di Kojima in ambito Metal Gear è stata spesso incensata per la profondità e l’articolazione dei suoi racconti, sempre molto precisi e dettagliati, che portavano la vicenda a incasellarsi in un’atmosfera credibile, avvincente e piena zeppa di colpi di scena tra veri conflitti mondiali che vanno a mischiarsi con scontri fittizi. Effettivamente molti di questi dettagli in molti capitoli del franchise sono reali e seriamente ci si sente immersi in una grande epopea fantapolitica quando si impugna il pad per giocare, ma nonostante tutto qualcosa non gira per il verso giusto.
Senza perderci in fronzoli verbali, il primo problema del grande racconto kojimiano è legato in primis a una enorme prolissità di dettagli nei capitoli dove probabilmente l’autore giapponese è riuscito a muoversi più liberamente. Se da un lato i tanti dettagli risultano utili per soddisfare ogni curiosità, dall’altro non fanno che appesantire inutilmente quanto spiegato, con particolari di poco interesse o troppo speciosi per poter essere ricordati e apprezzati in un quadro generale nel tempo.
Metal Gear Solid 4 nell’ambito è probabilmente il gioco che presenta di più questa problematica, con cutscene infinite e dialoghi riguardanti, per esempio, la funzionalità di intelligenze artificiali come GW praticamente estenuanti nella loro meticolosità e lunghezza.
Proseguendo, purtroppo, anche quando le informazioni di trama diventano qualcosa di opzionale, dipendenti dalla volontà del videogiocatore, come accade in Metal Gear Solid V, la storia obbligatoriamente affrontabile risulta così esigua ed elementare da richiedere l’affiancamento delle infinite feature opzionali del titolo, presenti sotto forma di audiocassette.
In termini di costruzione dei personaggi, nessuno di quelli proposti, a parte il Revolver Ocelot di Metal Gear Solid 3 e la Quiet del V, riesce veramente a bucare lo schermo, ingabbiati come sono in discorsi prolissi, figure macchiettistiche o bloccati in linea generale in una sensazione di inerte essenzialità verbale e fisica come accade in tutte le incarnazioni di Snake a parte quella testosteronica, un po’ rozza e più umana dell’avventura di Shadow Moses. Il caso simbolo ci viene fornito dall’amatissimo personaggio di The Boss, proveniente sempre dal terzo capitolo Solid della saga.
L’antagonista, infatti, quasi nella totalità del gioco non farà nient’altro che stendere il buon Snake in maniera talmente ripetitiva da risultare in gran parte invece che iconica nella sua granitica mancanza di emozioni ravvisabili e nell’assenza di altri comportamenti caratteristici, un robot dall’essenza macchiettistica.
Ricordo che all’epoca scatenò in me qualche sorriso e qualche ironica scommessa su cosa avrebbe fatto la volta dopo, finita l’ennesima lotta a colpi di CQC, nel possibile nuovo incontro con il suo allievo prediletto. Si salva in ogni caso, parzialmente, alla fine del titolo, dove il suo discorso a Snake, prima di morire, risulta veramente ben fatto e di spessore. Un discorso che però non garantisce un grado di personalizzazione tale (tradendo quindi un carattere umano proprio oltre gli ideali espressi) da far riuscire a dimenticare il modo con cui è stata utilizzata lìex eroina d’America durante l’avventura.
A questo punto mi si chiederà giustamente cosa ha in più il personaggio di Ocelot rispetto a quello di The Boss durante le vicende di Snake Eater. Essenzialmente il giovane Revolver risulta squisitamente umano nelle sue acrobazie personalizzate con le pistole, nell’imprimere nelle stesse delle decorazioni proprie, nell’avere delle pose caratteristiche durante le battaglie e soprattutto nella capacità di imparare dai suoi errori ogni volta che incontra Snake e viene irrimediabilmente battuto. Un particolare, quest’ultimo, che gli consegna un senso di evoluzione propria. tipica di ogni essere umano.
Esaminando quindi gli aspetti di scrittura, si capisce perfettamente come un giovane Kojima, anagraficamente meno maturo, non sia riuscito a entrare, tramite i suoi racconti, nel mondo del cinema, dove a livello base per l’accesso sono necessarie una certa capacità di sintesi che risulti il più eloquente possibile sia nella narrativa che nella scrittura dei personaggi, data la durata media di un film.
Non è finita qua, però, perché Kojima, come si sa, è un fan della meta narrativa e di tutti quei mezzi che possono esaltarla. I risultati in merito però risultano ora riusciti ora meno e parlandone la mente vola inevitabilmente verso la rivelazione finale di Metal Gear Solid V e narrativa di Metal Gear Solid 2. Se infatti la personalizzazione del proprio alter ego, Medic, aiuta in maniera ottima ad identificarsi con Venom Snake, dato che l’editor iniziale dell’avventura permette di replicare i nostri tratti facciali, elementi come la Foxhound e Campbell, così come l’inesperienza e ingenuità di Raiden, che dovrebbero essere indizi che portano alla metafora del gioco che manipola il videogiocatore, non funzionano come dovrebbero.
E’ molto probabile che nei piani dell’autore nipponico questi particolari dovevano portare al sospetto di qualcosa di davvero strano all’interno delle vicende della Big Shell ma a livello di sensazione istintiva riescono a rifarsi soltanto a un’inettitudine del protagonista, e a un ritorno senza particolari artifici di Roy e della sua squadra.
Infatti, in base all’esperienza del videogiocatore, istintivamente l’aggancio alla meta narrativa non si attiva gradualmente visto che nell’ingenuità dell’androgina spia non esiste neanche una riga di discorso che possa portare elegantemente a pensare che ci si stia riferendo a poco a poco anche alla nostra realtà, fino alla palese verità svelata della parte finae della narrazione. Una dinamica che a conti fatti lo fa risultare uno stupido imbecille, in base all’esperienza accumulata nella totalità dei giochi tripla A esistenti, agli occhi del giocatore, dove l’identità e le azioni del protagonista si riferiscono solo a se stesse, senza alcun tipo di elementi meta.
Una disamina che si ripete nei dialoghi anche per il ritorno della Foxhound e del suo capo, fino alla netta rivelazione, che risulta staccata sensibilmente a livello narrativo da tutto il resto, verso la fine del gioco.
Avventurandoci nel lato registico dell’opera, nonostante una tecnica impeccabilmente da manuale, da una saga che punta sull’autorialità ci si aspetta il vero tocco d’autore che riesca ad elevarla rispetto alle altre. Il prodigio però non si vede quasi per nulla, a parte un simpatico switch in prima persona in Snake Eater. Un amante del cinema quindi non vedrà nessun vero virtuosismo di camera originale e significante nell’opera.
A fasi alterne a livello di inventiva vanno invece gli effetti di personalizzazione visiva dell’opera. Azzeccata e particolare, per esempio, risulta la scelta di sovrapporre, tramite un tasto dorsale, le immagini del primo MGS a quelle del quarto episodio. Una scelta che trova il suo incontro felice nel rievocare il passato in maniera potente e vivida (che porta alla mente bei ricordi, insomma per chi ha amato l’avventura contro Liquid Snake) grazie alla scelta di mantenere i pochi poligoni originali, che sono uno dei marchi della leggenda del capostipide dei capitoli Solid.
Della stessa fattura risulta la patina gialla che contribuisce a realizzare la grafica del terzo capitolo 3d. Grafica che ricorda il giallo di un’esplosione nucleare, oltre che essere un valido contributo a rendere più caldi e immersivi i colori della natura selvaggia in cui Snake deve operare. Meno bene va per Metal Gear Solid V invece, dove il lens flare, per quanto possa essere spettacolare da vedere, non sembra contestualizzato in nulla, risultando una mera riproposizione ganza dell’effetto utilizzato da J.J. Abrahams per i suoi film.
QUANDO ATTINGERE DALLA REALTA’ NON BASTA PIU’
Una saga videoludica che si è protratta dal 1987 fino a due anni fa, però, trova giustamente in parte la propria ragione di esistere anche nel gameplay e anche per lo stesso va giudicata. La medesima ci ha proposto nel tempo dei sistemi di controllo contaminati da diverse idee. Idee con cui Kojima nelle fasi più prettamente fantasiose si è trovato a proprio agio a fasi alterne. Si ha dunque a che fare con delle dinamiche militari e realistiche di base che colgono spesso e volentieri a piene mani, nella maniera più dettagliata possibile, particolari a volte impensabili e molto immersivi come il rumore diverso o più risonante nel camminare su specifiche superfici rispetto ad altre, o le movenze distintive, a cui si contrappongono a volte delle idee originali non così riuscite da essere all’altezza di una soddisfazione da capolavoro.
Volendo cominciare in positivo, vorrei incensare i particolari realistici inseriti nel primo e nel secondo capitolo dell’epopea usciti per MSX (e fortunatamente riproposti anche in occidente). Dei giochi che sfruttano, per stupire, i più infinitesimali dettagli realistici e militareschi per farsi apprezzare . Abbiamo quindi a disposizione, per esempio, sigarette che svelano i laser, razioni da spargere sul terreno per eliminare l’olio scivoloso, muri da abbattere con gli esplosivi, stinger telecomandati per disattivare pavimenti elettrici, nemici che sbucano all’improvviso nell’ascensore.
Peccato che molte delle scelte di design presenti in questi primi due titoli vengano in gran parte prese di peso e trasportate nel primo capitolo 3d della saga. Una trovata che in passato ha funzionato per favorire la presunta freschezza di Metal Gear Solid, in assenza, per gran parte dei videogiocatori, della prova legata ai capitoli precedenti, ma che in epoca moderna mette sulle gambe l’amatissimo titolo per PlayStation nella giocabilità, che risulta quindi quasi una riproposizione 3d 1:1 dei due capitoli precedenti, e di conseguenza un po’ un clpo basso nei confronti dell’utenza.
Com’è giusto che sia, però, per non rendersi prevedibile nel tempo, una saga videoludica simile non può solo basarsi su dettagli realistici, visto che nel tempo, seppur impensabili a tratti, possono cominciare a risultare risaputi e non così brillanti nella loro caratteristica base di saccheggio della realtà. Che abbia pensato o meno a questa eventualità, Kojima si comincia ad applicare fin dal capostipide della saga in invenzioni fantasiose dai risultati alterni nell’efficacia. Da citare in positivo, facendo un grosso salto in avanti fino a Snake Eater e a Sons of Liberty, sono lo scontro con The Sorrow, dove grazie alle chiamate al codec, agli indizi sparsi nel gioco e al luogo legato alla morte in cui si vaga (il fiume pieno di spiriti) é intuibile in maniera elegante come riuscire a risvegliarsi, interrompendo logicamente l’azione e lo scontro con Fatman, dove giustamente la bomba più importante e quindi più “grossa” in tutti i sensi è proprio nascosta sotto il boss.
Credetemi, vorrei continuare così. Vorrei continuare a spendere elogi per la saga, anche per goderne assieme, nei suoi guizzi, ma ai suddetti due ottimi esempi di game design se ne affiancano tanti altri non propriamente encomiabili e che riguardano in gran parte dei casi l’assenza di un riferimento certo con la realtà, costringendo Kojima a lavorare di fantasia.
Il primo caso nel merito che voglio proporvi è una vera e propria bomba (che spero non mi porti troppe rogne), ed è legato al famosissimo e incensatissimo scontro con Psycho Mantis.
Il fulcro della battaglia con il nemico, come già saprete, è il cambio di slot del controller che gli impedisce di leggere in anticipo gli attacchi di Solid Snake. In principio Mantis mostrerà le sue capacità di lettura/controllo dei pensieri leggendo la memory card del videogiocatore, per poi dare una dimostrazione di previsione e quindi controllo dei movimenti, tramite sempre la mente, sul joypad grazie alla vibrazione. Quello che perplime, anche a tutt’oggi dell’enigma, è legato al senso istintivo di dover passare alla seconda porta del controller in un videogioco single player, dove il secondo slot è assolutamente inutile per tutto. Quando quindi si arriverà alla soluzione, si avrà la sensazione che, nonostante la logica degli indizi, arrivati anche via codec, passare alla seconda porta per il pad sia strano, bizzarro più che geniale.
Continuando con Metal Gear Solid e parliando della sequenza del codec legata al personaggio di Meryl, si ha un’altra prova di come ci siano delle difficoltà in termini di efficacia di certi enigmi. Come saprete, sono i personaggi di Baker e quello di Campbell a suggerire che il codice per raggiungerla è “dietro la custodia del disco”, quella vera. I difetti del puzzle risiedono fondamentalmente nel: A) Non riuscire a comunicare in modo “metaludico”, sempre in maniera velata, tramite i dialoghi, che la copertina é quella vera, limitandosi a un didascalico “guarda dietro la custodia del disco” B) Non riuscire a concepire da parte del videogiocatore che una soluzione di un gioco si possa trovare dietro la copertina dello stesso invece che su una rivista o su internet. Il meccanismo risulta quindi artificioso perché si é anche troppo abituati, oltre gli indizi non proprio utili di cui sopra, a connettere le soluzioni con le riviste o a internet, facendo di conseguenza essere l’enigma artificioso quando ne si arriva a capo.
Gli enigmi migliori, per saziare la vostra voglia di capire come secondo me dovrebbero essere fatti, dovrebbero essere impegnativi ma allo stesso tempo risultare soddisfacenti nella risoluzione sia istintivamente che logicamente. In pratica, in poche parole, l’enigma di Mantis doveva risultare anche istintivamente soddisfacente tramite il cambio di pad, oltre che essere all’avanguardia, ovviamente, nella pura logica.
Non mi è molto piaciuta neanche la scelta della maschera all’inizio della Missione Virtuosa, utile nel gioco per potersi infiltrare meglio in uno dei covi nemici. E’ vero, c’è un colpo di scena abbastanza scenico all’inizio del gioco vedendoci nei panni di Raiden, ma dall’altro lato, riflettendoci, non ha granché senso indossare una maschera sotto un’altra maschera (quella del lancio halo) quando poi a posteriori si scopre che la si deve utilizzare molto più in là nella propria missione di salvataggio dell’umanità.
Sicuramente le vendite della saga provano a smentirmi, ma già all’epoca del primo Metal Gear Solid si poteva già fare affidamento su riviste di settore che hanno aiutato in parte il gioco a vendere. Vi renderete conto, però, che un aiuto sistematico legato a delle riviste, o a internet (come dimostrano le moltissime domande inerenti al codec di Meryl presenti in esso, per esempio), non risultano confacenti a quella che è la missione primaria in un videogioco del genere: ancora la soddisfazione di arrivare da solo a capo di una difficoltà.
Passando a Metal Gear Solid 4, parliamo del sistema di stress di old Snake, che per quanto realistico possa essere nell’ingolfare i movimenti del personaggio, risulta una feature abbastanza inutile e davvero poco caratteristica a livello visivo nelle meccaniche di gameplay, pur dovendola tenere abbastanza sott’occhio .
Il quarto gioco della saga, come molte delle idee fantasiose provenienti dalla mente di Kojima, come abbiamo visto si concentra sulle boss fight, e la battaglia con Vamp non fa eccezione. Com’è noto il nostro “ballerino di flamenco” è battibile definitivamente tramite l’iniezione di inibitori per le nanomacchine, senza la quale tornerà in vita all’infinito. La problematica qua si rivela nell’aver, in ore e ore di filmati e spiegazioni, giustamente rimosso o non fatto tanto caso ai pochi indizi che rimandano agli stessi come arma risolutiva per lo scontro.
Non se la passa troppo bene neanche l’incontro nello stesso capitolo contro Screaming Mantis. Seppure infatti risultano apprezzabili le modalità di scontro e l’idea della bambola voodoo, così come la scherzosa ammonizione di Otacon nel non utilizzare lo stesso trucco usato per Psycho mantis una volta provatolo, scuotere un pupazzetto per battere un boss senza vederne degli effetti pertinenti (magari facendolo sbattere sul terreno tramite essa), rovina l’idea stessa del controllo dei movimenti del boss. Abbiamo quindi a disposizione una sessione di gioco diversa, potenzialmente molto divertente ma non realizzata ottimamente.
E’ certo che Kojima fosse ampiamente stanco della saga di Metal Gear già nel 2008, visti i suoi annunci di abbandono sempre prontamente smentiti nel corso del tempo, ma in sede di critica si dovrebbe valutare quello che è il prodotto in se e Guns of the Patriots ha degli evidenti difetti che non possono essere elusi.
In definitiva, la saga di Metal Gear ha segnato la storia dei videogiochi, ma è abbastanza probabile come il suo successo sia dovuto più che a una fucina di idee stellari, alla voglia di giochi dall’aspetto serio da parte dell’utenza nel momento dell’esplosione commerciale di PlayStation, a una confusione generalizzata dovuta all’età media bassa del pubblico dei videogiochi (mai cambiata seriamente. Basta vedere la fantasia dei titoli tripla A prodotti e i tanti ragazzini che popolano i servizi online), che non riesce a delineare bene le linee guida di un’idea geniale per il proprio medium, e infine a un pubblico medio che con faciloneria bolla un’idea come ottima, senza pensarci troppo su, solo perché è composta da un metodo alternativo.