Esistono videogiochi che pur non essendo rivoluzionari nelle meccaniche riescono a lasciare un ottimo ricordo di loro. D’altro canto il cambiamento inventivo ed efficace stesso,se non esistessero titoli che limano o sfruttano a pieno tutte le possibilità di un genere, diverrebbe monotonia per la mente e quindi meno efficace di quello che dovrebbe essere. Tra questi titoli si inserisce un gioco che prende un genere, il survival horror, portandolo per certi versi alle estreme consegunze con successo: The Last of Us.
Il titolo prodotto da Naughty Dog, all’epoca della sua uscita, spiazzò per quanto riferito da pubblico e critica, per un gameplay ben raffinato, a parte qualche componente e per una trama molto appagante che ci portava in un mondo post apocalittico dove un’infezione fungina aveva reso irrimediabilmente schiava l’umanità.
A mio avviso, però, i meriti del gioco vanno anche oltre la raffinatezza di meccaniche collaudate, e un trama matura e ben sfaccettata seppur con qualche scelta controversa, insinuandosi in cunicoli d’apprezzamento inaspettati per quanto concerne il gameplay.
WELCOME IN A WORLD WITHOUT RULES
Per il periodo d’uscita, il gioco si mostra graficamente al massimo delle possibilità della PS3, tradendo quasi, nella sua resa finale un passaggio alla generazione successiva di console. I modelli e gli ambienti poligonali dei vari personaggi in gioco, pur essendo le ambientazioni abbastanza esigue a livello di varietà, sono straordinariamente ricchi di dettagli riuscendo a vivacizzare di volta in volta sempre l’attenzione del videogiocatore. Avremo a che fare con personaggi veri nell’aspetto, quindi, supportati da a animazioni eccezionali (che sfruttano anche un grande motion capture) e una varietà “interna” alle ambientazioni molto sviluppata, che ci presenterà palazzi fatiscenti e abitazioni diroccate sempre arredate in modo diverso. Location queste ultime che inoltre risultano invase in maniera armonica da alberi e piante per valorizzare in maniera coerente come la natura stia prendendo gradualmente il sopravvento su un’umanità non più padrona del territorio e impossibilitata d’altro canto ad esserlo. In questo senso andranno ad aggiungersi anche coreografiche file di automobili abbandonate al loro destino per le varie strade a rappresentare inoltre un vano esodo verso una meta sicura inesistente.
Per ricreare una tale mole di dettaglio che sia percepibile dall’occhio in tutta la sua ricchezza, si dovrebbe utilizzare, però, una paletta di colori che comprenda molti toni, nonostante i racconti cupi e apocalittici proposti da una che non ci risparmia neanche momenti di pura crudeltà. Una paletta troppo variegata, però, rischia di portare a una vivacità troppo pronunciata dell’immagine che tradisce quella che da programma dovrebbe essere un’atmosfera mortifera. E purtroppo, non vogliatemene, è proprio quello che accade nell’ultimo nascituro per Playstation 3 firmato Naughty Dog. Nonostante quindi le immagini beneficino di una ricchezza minuziosa assolutamente riempiente per l’occhio, si cede più volte il passo verso dei toni troppo vividi che scalfiscono un po’ il gran lavoro svolto dallo sviluppatore per il titolo. Sicuramente il mio può essere scambiato per un eccesso di zelo, ma un titolo per meritare il massimo delle votazioni deve restituire il massimo o cercare di coprire i propri difetti con altre caratteristiche. E’ un po’ un peccato, ad ogni modo, nel caso dell’avventura di Ellie e Joel, visto che serenamente avrei voluto non lamentarmi di nulla, viste le molte sensazioni positive che mi ha trasmesso.
Questa introduzione ai difetti della grafica ci porta quindi alla seconda, e per fortuna, ultima ma determinante pecca che la stessa porta con se: la gestione degli spazi. Se vero infatti che la pienezza del dettaglio del gioco porta molta gradevolezza, dall’altra parte della medaglia è altrettanto vero che lo sviluppatore ha esagerato in più frangenti a costellare il gioco di troppi particolari rendendo la resa dell’ immagine, in via definitiva, a torto, a tratti davvero troppo soffocante. Un’ immagine che dunque reclama a più voce delle ambientazioni spaziose che mai arriveranno lungo una 15ina d’ore di gioco.
UN CERTOSINO CERCARE
Il punto forte di The Last of Us è però il gameplay, portato, come accennato all’inizio di questa recensione, alle estreme conseguenze del survival in certi aspetti, pur riuscendo a risultare perfettamente bilanciato a livello di difficoltà, in modo da essere davvero accessibile a tutti.
La sensazione di pochezza e di senso di sopravvivenza del titolo non deriva quindi soltanto dalle relativamente poche armi e pallottole a disposizione, ma anche da un senso di frugalità generalizzato che ci si ritrova ad affrontare quando ci sono da raccogliere, spesso e volentieri per rimpinguare l’inventario, vari piccoli oggetti utili per la propria missione. Gli stessi inoltre, si trovano intelligentemente smistati in vari cassetti, armadi o angoli degli edifici e degli spazi aperti visitabili, dando un incentivo continuo al videogiocatore nell’esplorarli tutti fino all’ultimo impensabile anfratto.
A completare questa meccanica, in modo da strutturarla in un quadro vario e mai stancante, ci pensano delle molto ben collaudate battaglie con i nemici, sia umani che non, che coprono sempre molto bene tatticamente gli spazi della mappa di gioco, delle fasi stealth impreziosite da inquadrature cinematografiche tremolanti e ben studiate nei momenti degli attacchi mutanti che favoriscono il senso di pericolo diverso e molto insidioso rispetto a quelli umani, seppur minati da una interattività limitata quando devono essere affrontate in cooperativa (si vedrà spesso Ellie gironzolare per lo schermo senza essere attaccata) e una serie di enigmi ambientali non impossibili ma sempre ben strutturati e coerenti con l’ambientazione.
A corredo di ciò, risulta veramente ben fatta l’insistenza con cui lo sviluppatore si è focalizzato nel tipo di interattività che il titolo doveva proporre: piccola ma ampia. Spiegandomi meglio in quello che potrebbe apparire come quasi un ossimoro, questa tipologia di dinamica si riflette nelle meccaniche di gioco con un’ossessiva interattività con tantissimi piccoli elementi di gioco.Le assi di legno, le bottiglie, i mattoni, le piccole zattere, i già citati cassetti di comodini e schedari e minuti oggetti di uso quotidiano, come quaderni e fotografie, restituiscono una ulteriormente ampliata sensazione di frugalità, che fa immergere ancora di più nelle fasi di gioco facendole risultare autentiche.
L’intelligenza artificiale inoltre è davvero ben costruita, con nemici umani che perlustrano intelligentemente le zone e si organizzano in gruppi tattici per poter sconfiggere il nemico quando si trovano ad ingaggiare delle battaglie con i nostri protagonisti. E’ inoltre apprezzabile come gli stessi a livelli normali di difficoltà non risultino troppo fastidiosi da abbattere pur rimanendo credibili grazie a tutte le feature tattiche di cui sopra.
Piacevole infine come il gioco riesce a fondere con inquadrature ben studiate, narrativa e giocato vero e proprio, come si vede ampiamente in ogni primissimo piano degli splenditi visi o nel restituire in linea generale un’immagine di campo sempre profonda.
UN BLOCKBUSTER MASCHERATO
La già citata narrativa del gioco é uno dei punti forti dell’esperienza fornita da Naughty Dog, dimostrandosi a più riprese veritiera nel dimostrare come reagirebbero dei gruppi di esseri umani intrappolati in un’apocalisse zombie senza fine. Il migliore ha la rogna, si direbbe dalle nostre parti, ed effettivamente il male è talmente radicato nella terra maledetta di Joel ed Ellie che davvero nessun personaggio si salva da esso, attivando un’inarrestabile e bestiale lotta per la sopravvivenza scandita comunque da toni coerentemente minimalisti in molti casi e intimisti. Ci si ritrova ad avere a che fare con una narrativa dove tutto è davvero possibile e che viene scandita saggiamente da centellinati colpi di scena molto realistici. Una impostazione che rimanda senza ombra di dubbio, altresì, per creare un buon amalgama tra raccontato e giocato, alla costruzione delle fasi prettamente dedicate al gioco.
Quello che però non mi va giù, da lettore navigato di storie a fumetti e di videogiochi, è come siano stati trattati certi argomenti tabù come l’omosessualità, dopo una prima spinta giusta e ben orchestrata che mostra un personaggio omosessuale secondario innamorato e addolorato senza alcuna direzione neanche apparentemente ruffiana.
Provando a scendere più nel dettaglio senza fare troppi spoiler, un personaggio femminile centrale della saga si rivelerà omosessuale. Una scelta narrativa sbagliatissima, a mio avviso, in un mondo mediatico che già sfruttava tematiche lgtb per poter fare soldi e mostrarsi solo formalmente come prodotto coscienzioso, alternativo, e di impatto,. Diciamo, in soldoni, che non è un gran bel vedere avere apparentemente a che fare con degli sviluppatori ultramilionari che sfruttano tematiche ormai sdoganate per il grande pubblico (non in Italia, ovviamente), cavalcando con una lunga dinamica di un suo protagonista, rigorosamente femminile per non offendere la “virilità” di nessuno, l’onda di quelli che sono argomenti ormai accettabili per il grande pubblico. Tra l’altro, ovviamente, in base alla scelta, senza rischiare nulla.
Nell’ambito, infine, neanche il finale del gioco stupisce, essendo ormai fin troppo maturi i tempi per i videogiochi di trattare tematiche dove è “l’ognuno per se” ad avere la meglio.
Nonostante ciò, la storia del titolo in linea generale risulta, seppur macchiata da questa scelta narrativa, molto coinvolgente e ben orchestrata nella sua cruda realtà legata agli istinti umani.
IL VENTO IN MUSICA
La musica che ci troveremo ad assaporare nel corso dell’avventura, è minimale, con picchi decisamente drammatici o eletrizzanti, grazie a dei bassi ben smistati, durante le fasi di shooting più concitate. Sembra proprio, come la schermata di avvio vuole suggerire, con una finestra socchiusa adornata da una tenda leggermente svolazzante, che il gioco voglia suggerire, com’è giusto che sia, una narrativa che scava all’interno della psiche, adagiandosi sapientemente nella riflessione più profonda e inerte sulla condizione umana.