Che cos’è una fotografia? Un’enigma da risolvere. Perché la rappresentazione di un oggetto non è mai l’oggetto rappresentato. Ognuno ha degli strumenti di codificazione e decodificazione, una griglia di lettura, dei codici utilizzati per
leggere l’immagine. E ciò rende il lavoro del fotografo una vera missione. Soprattutto quando il suo obiettivo è raccontare la realtà.
Nan Goldin è ciò che ha sempre fatto. Restituire con i suoi scatti la sua visione del mondo, il più possibile vicino alla realtà. Una realtà stropicciata, come quelle lenzuola aggrovigliate tra sonno, sesso e sudore; pungente, dall’odore di cipria,
sigaretta, umanità e rum; calda, come la voce roca di Lou Reed proveniente da una cassa gracchiante in una stanza semibuia; frastornante, da mozzare il fiato, un vero pugno nello stomaco. O una frattura dell’orbita.
Vera. Concreta. Autentica. Come, a sua volta, Laura Poitras la racconta con il suo documentario, “Tutta la Bellezza e il Dolore”. Perché anche il documentario è una rappresentazione della realtà e Poitras nel realizzarlo, con il suo stile asciutto,
elegante e diretto, pare diventare inconsciamente il doppio di Goldin. L’una fotografa, l’altra documentarista, entrambe devote alla ricerca militante della verità, non solo artisticamente.
Perché quella che inizialmente voleva raccontare la regista era la Goldin-attivista: una donna in lotta contro la ricca e potente famiglia Sackler, fondatrice dell’azienda farmaceutica Purdue Pharma, produttrice di ossicodone, e responsabile dell’epidemia di oppioidi iniziata negli Stati Uniti alla fine degli Anni Novanta. Al suo fianco dal 2019, Laura Poitras aveva posto le basi per un nuovo film d’inchiesta (come ha sempre sapientemente fatto nell’arco della sua carriera
cinematografica – si citi solo “Citizenfour”, Oscar al miglior documentario, su Edward Snowden): «Ma mentre parlavamo – ha dichiarato la regista presentando la pellicola alla 79ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia – ho
capito che questa era solo una parte della storia che volevo raccontare, e che il nucleo del film è costituito dall’arte, dalla fotografia di Nan e dall’eredità dei suoi amici e della sorella Barbara. Un’eredità di persone in fuga dall’America».
Il documentario così alterna passato e presente, mostrando le origini di Nan Goldin, la sua vita turbolenta, Boston, New York, tra amici, droghe, amori e violenza; e al contempo la sua battaglia di oggi, a capo dell’organizzazione P.A.I.N.
(Prescription Addiction Intervention Now), per spingere i più grandi musei del mondo a rifiutare i fondi della Sackler, togliere lo stigma alla dipendenza e promuovere strategie di riduzione del danno. Mentre il presente ci proietta nelle
concitate manifestazioni al Met o al Louvre, fino al processo contro la Purdue Pharma, il racconto della crescita artistica e personale di Goldin arriva allo spettatore come una confidenza all’orecchio, tra una sigaretta e una manciata di
ricordi. E a dar loro forma sono appunto le foto, il lavoro dell’artista: come sfogliando un vecchio diario, rivediamo i suoi primi scatti, il celebre slide show“The Ballad of Sexual Dependency”, i suoi rari filmati, fino all’organizzazione dell’eclatante mostra sull’AIDS del 1989, “Witnesses: Against Our Vanishing”.
Il titolo del documentario (Leone d’oro al miglior film 2022 e candidato al miglior documentario all’Academy Award 2023), “All the Beauty and the Bloodshed”, deriva da un rapporto psichiatrico della sorella maggiore della fotografa, morta suicida in giovane età. I genitori non avevano mai approvato la condotta anticonformista e sessualmente libera di Barbara ed era stata più volte ricoverata in un istituto psichiatrico, riconducendo il suo modo di essere a una malattia
mentale. Niente di più lontano dal vero. Anche nel momento della scoperta della sua morte, la madre voleva far credere a Nan che si era trattato di un incidente. Forse è proprio da qui che nasce l’ossessione dell’artista per la veridicità.
Raccontare la realtà con la realtà. Crudamente intima. Di un’onestà disarmante. Contro ogni tipo di conformismo, negazione e stigma. Sua sorella ne è rimasta vittima, sì. Ma ha saputo mostrarle la strada
Recensione scritta da Francesco Guarnori