Articolo a cura di Patrick, redattore NBG.
Ti invidio, Drake. Ti invidio per tre motivi: sei belloccio, hai sposato Elena Fisher e, se prendessi le royalties sulle vendite della tua immagine come i calciatori, saresti milionario. C’è però un quarto motivo per cui ti invidio… anzi, per cui ti odio, ti odio tantissimo: la tua serie è dannatamente perfetta. Già qui probabilmente sentirò il frastuono di fischi a vari inviti ad accomodarmi a quel paese, ma giuro che la frase sopra è frutto di un ragionamento semplice, un sillogismo aristotelico di semplice attuazione, di puerile risoluzione. Uncharted è quello che dev’essere: spettacolo, azione, ritmo, adrenalina, sentimento ed epicità. Ma prima di capire perché Nathan Drake rappresenti tutto questo, ripercorriamo Uncharted dal principio alla fine.
Ogni grande avventura ha un principio. Ma è la strada da percorrere, quella che conduce al suo termine, che riserva la vera gloria.
La serie vede la luce nel 2007 ed ha un compito alquanto arduo: dev’essere la finestra sulle reali capacità della neonata PS3, dopo alcuni porting e/o titoli non propriamente entusiasmanti. Il 7 dicembre 2007 è quindi il giorno del giudizio per capire se realmente Uncharted sia quello che promette. Naturalmente le aspettative non vengono deluse: riscrivendo il curriculum delle avventure grafiche, mischiando le carte in gioco e proponendosi come “Avventura Dinamica”, Nathan Drake getta una bomba al mano sul mercato, dettando nuove leggi per il genere d’appartenenza. Anzi, crea un “suo” genere di appartenenza: un genere che fa ampio uso di cinematica, concept solitamente riservati al cinema, azione esplosiva e situazioni spettacolari che poco hanno a vedere con le avventure grafiche propriamente dette.
Forse anche avvantaggiato da una concorrenza molto poco agguerrita, con un Tomb Raider in affanno (era da poco uscito Legend) e l’assenza di rivali, Uncharted fa la voce grossa, ma il grande vantaggio è che ha tutto il diritto di farlo. Difatti la vendite sono dalla sua: presto viene sfondata la soglia dei due milioni di copie, ed ecco che viene annunciato un sequel. Ma lungi dal dipanarci nella descrizione di trama e avvenimenti sia del primo, che del secondo e del (meraviglioso) terzo capitolo, analizziamo il perché Uncharted sia diventato l’essenza stessa del videogioco d’azione. Un passaggio interessante di un libro sul gioco stesso, appartenente alla collana Ludologica e che lessi qualche tempo fa, individua nei fattori di successo sia commerciale che di critica di un videogioco l’accessibilità, la reazione emotiva, la quantità.
Per il primo punto non c’è da fare chissà che discorsi: Uncharted è giocabile più o meno da ogni tipo di utente: il padre di famiglia, il casual gamer, l’esperto di giochi d’azione o il videogiocatore più incallito. Non ha sentimenti elitari, non vuole ergersi a culto di una setta di videogiocatori in particolare (altra bomba a mano: come fa Dark Souls) ma vuole entrare nelle case di tutti, soddisfare tutti i gusti e tutti i palati premettendo, beninteso, che proprio non sopportiate protagonista, genere, sparatorie e fasi platform a ripetizione. Anche gli enigmi, che nel genere di avventure grafiche è stata sempre una regola intoccabile, diventano funzionali a ciò che dev’essere Uncharted: sono in giusto numero, non sono impossibili ma sono appaganti. Io ci ho messo due ore a risolvere l’enigma del gioco di luci della Cripta Yemenita per cercare Iram Dei Pilastri, ma mi ci sono divertito un mondo. Poi entra il gioco il gusto meramente personale e, analizzando in maniera oggettiva, difficilmente si potrebbe imputare difetto alcuno al gioco, che è “così come dev’essere”.
Il secondo punto merita particolare attenzione. Nella mia vita da giocatore sono stati tre i momenti che mi hanno portato ad emozionarmi davvero per un videogioco:
- La morte di The End in Metal Gear Solid 3
- Il finale “Autodistruzione” di Deus Ex: Human Revolution
- La parte conclusiva di Journey
Questi tre titoli sopra riportati rappresentano emozioni diverse: Dolore, Angoscia, Nostalgia. Titoli validissimi che hanno saputo darmi quel che cerco quando gioco ai videogiochi. Uncharted per me è stato un vorticoso e, devo dire, piacevole gioco alla roulette dei sentimenti. Cutscenes e comprimari hanno per me rappresentato un gioco di empatie ed emozioni che non mi aspettavo: vuoi per la natura del titolo, vuoi perché, diciamola tutta, i personaggi non sono l’elogia alla complessità e si presentano piuttosto stereotipati. Nate è il bullo senza paura con un’ironia a volte scontata, Sully è il “Villain” buono con in mente solo il denaro, Lazarevìc (il cattivo de “Il covo dei ladri”) è il militare senza scrupoli che prima spara e poi chiede spiegazioni.
Ma la grande e sapiente mano di Naughty Dog è stata quella di dargli una precisa identità ed un palcoscenico perfetto: dove vedresti Nathan Drake, se non in una nave in mezzo all’oceano a scappare dai pirati, o in un’isola del Pacifico a cercare tesori misteriosi ed a combattere mercenari su mercenari? E’ lì che devono stare, lì che devono agire, impaurirsi, terrorizzarsi, innamorarsi. E qui entra in gioco la componente Elena Fisher, la comprimaria perfetta che mi ha fatto subito tanta simpatia, giacchè verso il finale del primo capitolo speravo nel lieto fine. E seppur sia anche lei un personaggio senza complessità eccessive, è stato sapientemente messo in gioco in un elastico continuo di allontanamenti e riavvicinamenti, con il famoso “Anello” di Nathan quale sottile e riuscito filo di congiunzione.
Anche l’amicizia ha valore simbolico in tutta la quadrilogia: Sully andrebbe in capo al mondo per Nathan, Nathan andrebbe persino contro un paese intero per salvare Sully. Con lo stesso Victor Sullivan che passa da comprimario e cialtrone nei primi due capitoli, a straordinario co-protagonista nel terzo, con una magistrale interpretazione da “Padre Putativo” che mi ha davvero messo i brividi. E’ questo quello che fa da allaccio emotivo a tutti i personaggi, quel filo di Arianna che, in un modo o nell’altro, lega tutti: quell’essere lì senza strafare, senza rubare la scena l’uno all’altro, in un artifico cinematografico riuscitissimo che ha reso il nostro “tifare per loro” finalmente appagato da ogni finale di ogni capitolo.
La quantità, “last but not least” è quello che maggiormente ci interessa pad alla mano, è il succo dell’essere avventura dinamica: pochi momenti di pausa, zero tempi morti, sequenze funzionali al dipanarsi della trama ma rese spettacolari da usi di panoramiche e stacchi di telecamera monumentali. Si passa da sezioni di esplorazione ad intense sparatorie, con climax ripetuti e che tengono col fiato sospeso. La partenza col botto di Uncharted 2, ad esempio, è l’emblema del nostro discorso, o come ad esempio le sezioni di metà gioco in Uncharted 3, dove dallo Yemen fino al tanto sospirato finale avremo sempre un senso di inquietudine per quel che succede. E’ il gioco dell’equilibrio precario, dove l’unico modo per sapere cosa succede è avanzare, andare avanti saltando da una piattaforma all’altra ed eliminare i nemici che ci sbarrano la strada uno dopo l’altro e ciò, senza accorgercene, alimenta in noi il sentimento che chiamo “Tanta roba ‘sto Uncharted!”.
Magna cum laude, la giusta conclusione: Nate Drake batte Indiana Jones 4 a 1.
Uncharted finisce. Lo disse la Naughty Dog con l’uscita del quarto capitolo, lo disse ogni fan con raziocinio che non voleva vedere il suo brand preferito avere cali qualitativi di nessun genere. Ma finito il nostro percorso, cosa ci resta? Ci resta un viaggio indimentabile: ci resta l’aver fatto il tifo per il fidanzato imperfetto Nate Drake, l’aver visitato Yemen, Cina, Borneo e la Londra vittoriana. Ci rimane la lacrimuccia scesa sul finire di “A Thief’s End” e il ricordo della numerose volte in cui il nostro cercatore di tesori ha rischiato la vita, e ci rimane anche la sensazione di aver toccato con mano la quint’essenza del giocare, uno dei comandamenti videoludici che solo ai videogiocatori più “enigmatici” non è entrato nel cuore. Ci rimane la soddisfazione di aver potuto constatare come, a volte, anche solo rimischiare le carte sia fondamentale. Imparare i meccanismi dati da regole apparentemente immutabili nel tempo, che una volta assimilate possono essere messe in discussione con idee non originalissime ma sapientemente miscelate, può essere una chiave di svolta fondamentale per inserirsi negli ingranaggi classici di un genere, e riscriverlo in parte rappresenta la svolta per una generazione intera. Non per altro, se non per l’essere un’esclusiva Sony, Uncharted ha rappresentato e continuerà a rappresentare uno splendido diamante grezzo dell’ammiraglia giapponese, che difatti ha prontamente proposto i remastered di tutti e tre i capitoli persino sulla nuova generazione di console.
Nate, ti invidio: hai saputo rappresentare per me, che ormai mi avvio verso i trenta, quello che ha rappresentato a suo tempo Crash Bandicoot quando ne avevo molti di meno. Senza contare che, in fondo, non siete molto diversi: correte, saltate, cercate di non farvi uccidere. Ma devo dire che tu hai una arma in più nel tuo arsenale: ti sei imposto in maniera così tremendamente presuntuosa che potevi starmi anche antipatico. Ecco: questa è l’unica cosa che non ti è riuscita.