Spesso ci si chiede quale sia la durata ideale per un videogioco, anche limitandosi a un solo genere: un open world dovrebbe durare 30, 70 o 120 ore? Qual è la giusta proporzione di tempo giocabile da dedicare alle missioni secondarie e ai contenuti di contorno? Generalmente la divisione dell’utenza al riguardo è onnipresente e di rado offre pareri concordanti, che sia in piccole o larghe misure, ma il motivo di questa suddivisione mista a confusione è in realtà piuttosto semplice da identificare: la durata ideale non esiste.
Unto the End è solo uno dei tanti esempi che possiamo fare, ma pur sempre solidissimo: un action-adventure in 2D con un sistema di combattimento piuttosto profondo, crafting e segreti di più tipologie… della durata di poco più di 3 ore ad esser buoni. Sicuramente non la durata standard per il genere, ma Unto the End è l’esempio ideale proprio per questo motivo: dimostra che gli standard non devono mai essere obbligatori. L’importante è avere ben definito in testa ciò che si vuole offrire al giocatore, e sono sicuro che 2 Ton Studios lo sapesse con perfezione dal principio.
Unto the End è un gioco breve ma intenso, come avrete capito, e ridotto piuttosto all’osso: scordatevi NPC, quest secondarie, poteri, stat e tanto altro, e preparatevi ad avere a che fare con una sorta di Prince of Persia del 1989 in chiave moderna — e parecchio in linea con il filone dark fantasy. Unto the End si può riassumere così: esplora, combatti e sopravvivi, nel senso più basico possibile. Il vostro obiettivo sarà quello di tornare a casa dalla vostra famiglia dopo essere precipitati in una fossa durante quella che sembra essere una sessione di caccia, e a separarvi troverete non solo nemici, ma anche trappole e delle piccole sessioni platform. C’è effettivamente poca roba relativamente agli ultimi due elementi, dato che l’obiettivo principale di Unto the End sul piano gameplay è palesemente il combat system, anch’esso perfettamente in linea con la descrizione che ho dato poco fa al titolo stesso: ridotto all’osso e intenso. Vediamo com’è strutturato.
Per il combattimento avrete a disposizione solo la vostra fedele spada, con l’aiuto di un pugnale lanciabile che potrete usare una sola volta su ogni nemico. Abbiamo una classica divisione dell’attacco, in questo caso non del tipo leggero/pesante, ma della meno comune scuola alto/basso. Ovviamente l’attacco alto, essendo “dedicato” alle parti più vitali del corpo umano, sarà più letale di quello basso, ma questo vale soprattutto per la difesa dei vostri avversari: non sottovalutate mai gli attacchi bassi nemici nei vostri confronti, dato che spesso ne basteranno appena due per farvi ricredere sulla poca letalità di ciò che vi colpirà sotto la cintura. Questi attacchi sono evitabili con una rapida parata (stick analogico in alto o in basso), con l’ausilio della schivata da fermi o con una classica rotolata. Fondamentalmente, l’obiettivo di praticamente qualsiasi combattimento sarà quello di parare o comunque contenere le combo di attacchi nemici per poi punirli con un’apertura quando possibile. Se dovessi consigliare un “assetto mentale” ideale per gestire i combattimenti di Unto the End, sceglierei a occhi chiusi Nidhogg, titolo tra l’altro ricco di somiglianze come il sopracitato Prince of Persia.
Ad aiutarvi durante il combattimento avrete anche una spallata, che dovrete però utilizzare in maniera estremamente saggia, pena l’ottenimento di una bella scopertura e una probabile morte conseguente — o comunque un danno pesante.
Danno che tra l’altro non è da intendere come credete: nessun valore in HP o altro di classico, per iniziare. Il personaggio, una volta ferito a sufficienza, inizierà a dissanguarsi per le ferite troppo profonde, e dovrete ricorrere alle erbe per limitare questo effetto negativo se non vorrete morire dissanguati, appunto. E perché ciò succeda, è necessario solo che scorra del tempo. Ovviamente c’è un modo per rendere la vostra difesa più efficace, ed è quello di impiegare i pochi materiali ottenibili (ossa, legnetti e pelli animali) per costruirvi un equipaggiamento. Il problema è che il suddetto si può rompere e i materiali sono limitati, quindi è sicuramente consigliabile cercare di non abusare del crafting in modo da non rimanere a mani vuote nei combattimenti più amari.
Non disperate, però, dato che non ho ancora citato una meccanica “buona”. Meccanica a cui non ho voglia di girare intorno, e che vi descrivo in poche parole molto chiare: i falò à la Dark Souls. Lo so, sono abusati, ma di fatto questo è il loro ruolo e sì, a differenza di titoli come Nioh sono letteralmente dei falò. Ovviamente questo non è minimamente un problema, in primis perché Dark Souls mi risulta non avere ancora ottenuto il monopolio sui checkpoint videoludici in forma di falò, e in secondo luogo perché le alternative che potessero risultare “naturali” con l’identità del gioco non erano poi così tante — giocare per credere. Un’altra buona notizia è che i falò non sono l’unico checkpoint del gioco. Se devo essere onesto, qua va aperta una piccola parentesi: è vero che buona parte dei combattimenti in Unto the End è tutto fuorché semplice, ma perlomeno quei bravi ragazzi di 2 Ton hanno regalato ai giocatori un checkpoint prima di affrontare quasi ogni singolo nemico.
Al di là di questo, sul piano gameplay rimane davvero poco di cui posso parlarvi: il gioco è sostanzialmente privo di testo e non ci sono dialoghi né missioni secondarie di qualche tipo, ma non sottovalutate Unto the End da questo punto di vista. Ci sono comunque segreti, assieme a oggetti di varie utilità e ottenibili in determinate maniere, di cui non vi posso parlare a meno che non vogliate spoiler sui contenuti nascosti presenti, che dovreste effettivamente scoprire con le vostre forze. Il mio consiglio è quello di non avere paura a sperimentare, e di ricordarvi che alcuni nemici potrebbero non essere davvero nemici. Unto the End è un gioco palesemente sviluppato per non mostrare tutte le sue facce durante la prima run, quindi vi straconsiglio di esplorare e sperimentare in ogni modo che vi verrà in mente, se volete capire al 100% ciò che intendo.
Dal punto di vista artistico, Unto the End non delude affatto: visibilmente piacevole, fluido, con una grana azzeccatissima e una scelta cromatica sufficientemente satura da non far risultare estremamente tetre né opprimenti nemmeno le parti più buie della vostra insidiosa avventura. Insomma, un perfetto matrimonio con il già pluricitato in precedenza “semplice ma efficace” e sinonimi vari. Sul lato sonoro, invece, siamo ben oltre: non parlo tanto delle musiche quanto degli effetti, gestiti in una maniera seriamente magistrale, dai rumori di fondo nei vari scenari al respiro dell’eroe. Unto the End, per questa ragione, andrebbe assolutamente goduto con delle buone cuffie — sempre se l’obiettivo è quello di goderselo al pieno assoluto del suo potenziale. Potenziale, tra l’altro, ulteriomente aumentato dall’assenza totale di bug o problemi di qualsiasi tipologia, o perlomeno così posso sostenere dopo quasi tre run.
Devo però dare un piccolo disclaimer piuttosto doveroso: Unto the End non è per tutti. I tempi di reazione richiesti in alcuni combattimenti sono davvero corti, con alcune animazioni nemiche che non vi daranno più di 300ms per dare l’input di risposta: in parole povere, in alcune situazioni vi ritroverete a dover parare o schivare tre volte in meno di un secondo. Ovviamente, come vi ho detto sopra, parata e stoccata non sono gli unici stratagemmi a disposizione, quindi ricordate di usare letteralmente qualsiasi mezzo in vostro possesso. Qualsiasi. Non vorrei spaventarvi, semplicemente conosco bene il rapporto di odio o frustrazione (o entrambi, a volte) che hanno determinati utenti con i videogiochi che richiedono tempi di risposta inferiori al mezzo secondo — vedere i vari capitoli al riguardo tra cui Sekiro, Guitar Hero, Thumper o Cadence of Hyrule. A causa di ciò, non posso assolutamente andare a letto con la coscienza a posto sapendo di avere consigliato a una fetta di utenza di investire i propri soldi su una sonora dose di frustrazione, quindi se avete sempre avuto problemi con i tempi di risposta brevi pensateci davvero molto, molto bene.
Detto ciò, vorrei dire qualcosa ai colleghi della stampa (internazionale più che nazionale) e lo farò con un altro rimando al già citato Dark Souls: git gud. Scherzi a parte, non è genuinamente possibile leggere alcune delle recensioni che ho letto in questi giorni su Unto the End, che lo dipingono come se fosse seriamente la versione Hell and Hell di DmC: Devil May Cry (per chi non lo sapesse, in Hell and Hell Dante muore con un solo colpo mentre i nemici godono delle stat che possiedono al livello massimo di difficoltà). Se fossero tutti disclaimer come quello che ho fatto sopra non starei qua a lamentarmi, ma arrivare a bocciare pesantemente questo piccolo genuino progetto solo perché creato da menti piuttosto hardcore è seriamente al limite del ridicolo. È vero che è ben presente l’alone di “trial and error”, ma perché dovremmo condannarlo solo per i piccoli progetti? Se dovessimo fare questo discorso con vera coerenza, ci ritroveremmo a bocciare tutti gli strategici degni del loro nome perché non godibili per davvero da un’utenza che sarebbe al 95% neofita nel genere e di conseguenza piuttosto smarrita, o comunque non davvero a proprio agio. Inutile sottolineare che questo è solamente un esempio, ma che da solo vale già per dieci. Unto the End è difficile, sì, ma non si può bocciare Sekiro perché l’utenza mondiale gioca più spesso a giochi sportivi e di guida rispetto ad action-rpg “hardcore”, giusto?
Con questo piccolo ma dovuto “rimprovero”, annuncio che non ho altro da aggiungere riguardo a Unto the End, se non che ne sconsiglio l’acquisto a prezzo pieno solo ai non-fan della rigiocabilità, dato che equivarrebbe a spendere 20 euro per tre ore di gioco (e non a tutti sta bene farlo). Unto the End, pubblicato da Big Sugar, è già disponibile su PC (Steam, Stadia e Game Pass), PS4, Nintendo Switch e Xbox One.