Sicuramente tanti di voi, quando sentono parlare di progetti come ICO, Journey, RiME ed altri titoli di livello, collocano i suddetti in uno spazio che risulta essere condiviso su molti aspetti: primo tra tutti, indubbiamente, la parecchia priorità assegnata al lato artistico del titolo, sollevandolo spesso dal concetto “standard” di videogioco. Generalmente definiremmo questo tipo di giochi come “Puzzle adventure” per il background da cui vengono, appunto molto più ricco di rompicapi: ICO, ad esempio, dispone di molti più rompicapi e soprattutto li pone molto più sotto al riflettore, piuttosto che relegarli o limitarli come nel caso di altri colleghi come Journey. Il genere esiste appunto in mille forme, e le sue componenti classiche possono essere più o meno presenti in base al concept assunto dagli sviluppatori: in Vane possiamo dire tranquillamente che di puzzle ci sia molto, molto poco, e che ci si sia focalizzati particolarmente sul lato estetico ed artistico in generale piuttosto che sul “lato videoludico comunemente inteso” in sè. Forse appunto fin troppo, ed è mia personale missione cercare di farvi capire il come e il perché di ciò.
Per iniziare, non è nemmeno il caso di seguire la “biografia” del gioco, anzi trovo molto più utile fare una distinzione che deve obbligatoriamente stare alla base della lettura critica di un titolo simile: avete presente l’enorme, generale suddivisione ricevuta dai videogiochi, specialmente a seguito del boom delle avventure grafiche? C’è sempre stata, solo che prima era data dagli strategici e dagli RPG a turni contro gli action puri, i picchiaduro, e gli altri generi che offrivano più dinamismo. Ora però la separazione è stata ulteriormente rafforzata, e titoli come Gone Home, Everybody’s Gone to the Rapture, ed altri in cui si deve letteralmente solo camminare ed esaminare oggetti, edifici o aree in generale, sono diventati il nuovo standard per il genere “dai ma così non è più un videogioco”: questo succede quando nel titolo non abbiamo una vera e propria “sfida” come la si intendeva prima, non abbiamo azione, e quando c’è non siamo mai noi ad averne il controllo. Again, spesso e volentieri si tratta solo di camminare ed esaminare. Ma come sappiamo altrettanto bene, in ambito artistico le suddivisioni in due soli versanti non sono praticamente mai state funzionali o verosimili: è completamente impossibile separare l’immensa vastità dei generi videoludici in due sole metà, ed è ancora più controproducente generalizzare. Così facendo, il grande pubblico ha perso in partenza i mezzi di cui aveva bisogno per inquadrare a dovere il fenomeno, e successivamente imparare a distinguere i prodotti che lo formano.
Il risultato finale è che per tante, tantissime persone, se il gioco non dovesse offrire azione o sfide vere e proprie di alcun tipo, il progetto verrebbe etichettato con leggerezza. E facendo così si rischia di confondere capolavori del calibro di What Remains of Edith Finch, The Vanishing of Ethan Carter, Tacoma e tanti altri, con progetti molto più sterili o frutto di una sperimentazione fallimentare. Mi duole dirlo, ma Vane tende ad essere molto più una di queste sperimentazioni che l’opposto. Avendo amato alla follia Everybody’s Gone to the Rapture, a mio avviso uno dei giochi “meno videogiochi” – in senso buono – che abbia mai provato, non sono certo propenso ad essere vittima di distorsioni del lato critico a causa di mancanza di azione o dinamismo, e proprio a causa di (o meglio, grazie a) questi prodotti, ho imparato a costruire la mia personale idea su cosa davvero risieda alla base di questa “carenza”, per tantissimi davvero problematica. In questo caso, Vane è vittima di principalmente due fattori: esplorazione estesa (spazialmente parlando) più che eccessivamente, e mancanza di una vera e propria identità. Vi sarà tutto chiaro a breve, perché posso finalmente scendere nel dettaglio.
Frutto di un piccolo studio di Tokyo, ergo Friend & Foe, Vane ci ricorda purtroppo da subito altri titoli. Se avete mai giocato, ad esempio, ai sopracitati Ico, Shadow of the Colossus, RiME, Journey e AER, il vostro istinto e la vostra memoria vi offriranno sostanzialmente una rassegna di collegamenti a questi lavori, in maniera alternata ma inevitabile. E di conseguenza, come immaginerete, l’identità del titolo inizierà immediatamente a perdere appeal. Parliamo pratico però: Vane presenta sostanzialmente due grandi e diversi aspetti relativi al gameplay, uno da giocare con un corvo e l’altro con un – nuovamente fin troppo classico per il genere – ragazzino. Il primo sarà sfruttabile per la stragrande parte nella prima metà di gioco, mentre la seconda parte sarà quasi esclusivamente dedicata al ragazzo. La trasformazione non sarà sempre disponibile però, ma solo in alcune limitatissime aree: non che ci fosse bisogno della feature della trasformazione libera, perché purtroppo l’esplorazione non è proprio il punto forte di Vane. Inizieremo il gioco nei panni del ragazzino, che si muove con alcune azioni orribili (spoiler alert: il salto) ed un’atmosfera, visivamente parlando, tra l’apocalittico in senso positivo e l’apocalittico in senso negativo: se la fotografia offre quanto pochi altri titoli sono riusciti ad offrire, la fluidità inesistente delle animazioni (spesso completamente definibili Slow-mo), e il pessimo mascheramento dei poligoni grossolani di certi elementi, contribuiscono terribilmente a non rendere Vane un vero e proprio capolavoro assoluto per gli occhi. Lo è comunque, in molti momenti, ma questa bellezza viene smorzata un po’ troppo spesso dai vari, sopracitati difetti. Gli screenshot di seguito, tutti “scattati” mentre giocavo e non durante i filmati, vi faranno capire meglio di mille parole di cosa parlo quando mi complimento sull’aspetto fotografico.
Detto ciò, passiamo al dopo-preludio: dopo la brevissima parte in cui controllerete il ragazzo, vi ritroverete in un deserto, nei panni di un corvo. Da questo momento in poi, dovrete sostanzialmente capire da soli tutto ciò che dovrete fare per far progredire la storia, e dovrete farlo volando con il nostro nerissimo amico alato in giro per una mappa composta da perlopiù aree desertiche, gole, canyon e qualche oasi. Il resto lo capirete appunto esplorando. Volare con il corvo sarebbe una parte davvero ben riuscita e piacevole, se non fosse per due enormi difetti: l’esplorazione è decisamente spoglia, priva di stimoli, e la telecamera durante le manovre a velocità medie o alte sarà fastidiosa e tremolante come poche altre cose al mondo, con il secondo difetto che va ad eclissare il primo quando si posano entrambi sulla bilancia. Il controllo del ragazzino invece è piuttosto ok, ma nei limiti: le animazioni dei suoi movimenti sono davvero frutto di pochi sforzi, ma perlomeno risponde bene, e potrà semplicemente attivare qualche artefatto, saltare, arrampicarsi e spingere una manciata di oggetti. Questa è la copertina, ma ormai vorrete giustamente capire perché abbia definito Vane una “sperimentazione fallimentare”.
Analizziamo i due problemi sottolineati in precedenza: esplorazione estesa eccessivamente, e mancanza di identità. Riguardo il primo, bisogna dire che per limitarlo o direttamente risolverlo, si potevano percorrere due diversi sentieri: ridurre la mappa, o aggiungere più elementi stimolanti verso l’esplorazione. La mappa è troppo grande se proporzionata a ciò che il titolo offre sul piano interattivo, ed ovviamente un qualsiasi giocatore che prende il controllo di un uccello in un vasto deserto non si aspetta certo di dover girovagare quasi inutilmente per la maggior parte del tempo. Ma questo è ciò che effettivamente succede. La grande mappa desertica di Vane in realtà serve solo da preludio per la seconda parte, ma è assolutamente lecito dire che praticamente chiunque avrebbe preferito più sfaccettature, o perlomeno una distribuzione degli elementi chiave più concentrata e meno immotivatamente estesa. Inoltre ricordiamo nuovamente che, come se non bastasse, l’inquadratura sembra tremare dal freddo spesso e volentieri quando si supera la velocità media di volo. Il secondo problema invece, quello legato alla mancanza di identità, lo avrete sicuramente percepito ampiamente tramite gli esempi che vi ho proposto in relazione ad altri titoli. Specialmente riguardo RiME – ma non solo – ci sono alcune parti che sono oltre il livello “spudorato”, come il dover attivare antichi artefatti magici usando la voce del ragazzino con la pressione del tasto triangolo (really?), per non parlare di determinate figure estremamente simili (non solo esteticamente) ad altre presentate dal capolavoro di Tequila Works, da Journey, e da altri masterpiece non solo della videoludica ma legati ad animazione e fumetto.
In conclusione, Vane è molto evocativo, affascinante, suggestivo, ma non con propri mezzi, non con la farina proveniente solo ed esclusivamente dal proprio sacco, e questo uccide seriamente la stragrande parte dei suoi elementi positivi. Mi dispiace sostenerlo, ma Friend & Foe sembra quasi essersi accodata in preda all’entusiasmo alla “semplicità” dei concept presentati dai colleghi, scambiandola appunto per una vittoria facile che alla fine non è stata né facile, né tantomeno una vittoria. Diciamo che se Vane fosse Gone Home, probabilmente lo apprezzeremmo pure, ma successivamente giocando a What Remains of Edith Finch diremmo “Ah. Effettivamente, così va molto meglio”. A primo acchito può davvero sembrare che la percezione di tanti sviluppatori che decidono di gettarsi in quest’ambito sia più o meno la seguente: basta presentare una bella grafica, uno scenario evocativo, un alone di mistero e una lingua a noi sconosciuta, per far magicamente saltar fuori il nuovo capolavoro videoludico. E invece, proprio nella semplicità è difficile innovare e distinguersi, e non basta seguire i migliori esempi per offrire un prodotto paragonabile ai suddetti pilastri. Persino la colonna sonora, per quanto funzioni e sia di ottima fattura, suona di “giocata facile”, essendo perlopiù sul filone retrowave/synthwave che tanto ha contraddistinto sia capolavori dell’indiegaming che di serie Tv pluriacclamate, Stranger Things in primis. Purtroppo, come noterete se giocherete Vane, per quanto essa sia di ottima fattura non riesce comunque a calzare perfettamente l’atmosfera in tutti i diversi momenti. Anche in questo progetto però, come mi è spesso successo in altre recensioni, c’è un potenziale assolutamente da sottolineare, e sul piano della fotografia non credo di aver giocato più di due o tre titoli paragonabili ad alcuni spettacoli offerti da questo purtroppo mal utilizzato progetto: progetto che spero anche il buon Matt Smith (produttore) abbia riconosciuto come non propriamente un successo, così come spero che l’intero team si sia accorto dei pro ma soprattutto dei contro di Vane, e che ognuno dei suoi componenti torni alla carica con un progetto dal concept rinfrescante ed affascinante allo stesso tempo. Le potenzialità ci sono, speriamo bene per la volontà e i mezzi. Spero alla prossima Friend & Foe, per adesso ci salutiamo molto a malincuore con un no.