Non è lavoro affatto semplice recensire un titolo come We Happy Few. Dopo molto tempo passato in Accesso Anticipato su PC, il gioco è stato finalmente rilasciato nella sua versione completa anche su console Playstation 4 e Xbox One. Ho giocato a fondo la versione Playstation 4 del gioco, e sono pronta a dare il verdetto. La difficoltà nel valutare il prodotto nasce dal fatto che le seppur originali ed avvincenti atmosfere e narrativa, rischiano di venire obnubilate dai molti problemi tecnici che – purtroppo – il gioco presenta. E dopo tutto quel tempo in Early Access, non ce lo si aspetterebbe.
La rete narrativa di We Happy Few prende il via da un semplice assunto: cosa sarebbe successo se durante la Seconda Guerra Mondiale gli inglesi si fossero arresi ai tedeschi? Dalla semplicità nasce però una complessa (de)costruzione storica e distopica, che ci porta nell’Inghilterra degli anni ’60 in una situazione devastata. I cittadini vivono principalmente nella miseria e nel dolore dei ricordi della guerra, e per porre rimedio a ciò è stata creata una particolare sostanza stupefacente: la Gioia. Quest’ultima, se presa regolarmente, dona alla persona un perenne stato di euforia, che permette non solo di vedere un mondo felice e colorato, ma anche di dimenticare i ricordi più dolorosi e di essere facilmente manipolabile. Non tutti però sono in grado di reggere questa sostanza: coloro che la rigettano, ad esempio a causa di reazioni allergiche, e coloro che si rifiutano di prenderla, vengono definiti Musoni, e sbattuti fuori dalla città, per finire a vivere in una periferia fatiscente e scarsa di risorse, frugare nell’immondizia e nutrirsi di alimenti marci pur di non morire di fame.
Il dolore della memoria
Ma, in sostanza, a che cosa serve la Gioia? Perché il sistema creatosi – il cui volto “pubblico” è quello dello Zio Jack, onnipresente in tutta la città su schermi e in audio – ne ha bisogno per reggersi sulle deboli fondamenta che pone sotto di esso? Ciò che emerge dalle prime ore di gioco è che quando la popolazione inglese si è arresa al regime tedesco, orribili avvenimenti si sono succeduti. Tra questi, il fatto che il governo tedesco impose agli inglesi la deportazione in terra germanica come ostaggi di tutti i bambini al di sotto di una certa età. La popolazione obbedì, senza battere ciglio. Avere quindi a che fare con ricordi tanto terribili, che facilmente darebbero origine ad una spirale di senso di colpa, è diventato pericoloso per la società. Si è quindi deciso di mettere a tacere le urla di dolore della memoria, tramite la Gioia. Ma quanto può durare?
Crepe
In realtà le storie affrontate nella campagna di We Happy Few sono profondamente personali. Il primo personaggio (di tre) che controlleremo e di cui seguiremo le peripezie, Arthur, rifiuta inizialmente (è in realtà la prima, spiazzante, scelta davanti alla quale viene posto il giocatore) di prendere la propria Gioia ed inizia a ricordarsi del fratello Percy, deportato molti anni prima in Germania e di cui non ha più avuto notizie.
Sembra quindi che in questo sistema, quello della negazione della memoria sia l’unico modo di sopravvivere. Ma questo comporta dei rischi tremendi: che cos’è la memoria, personale o collettiva, se non elemento fondamentale della propria identità? Ed è proprio questo che il mondo dipinto da Compulsion Games ha perduto: la propria identità, in favore della cancellazione di terribili eventi. Questo traspare dall’estetica delle persone che incontriamo, all’interno della Wellington Wells “perbene”, in preda alla Gioia: tutti con la stessa “maschera” bianca, che li rende allo stesso modo burattini di un sistema che non possono comprendere. Persone che quindi vengono spaventate da qualsiasi tipo di comportamento che devia leggermente dalla rigidità quotidiana: non potremo correre, nasconderci, acquattarci senza che le persone intorno a noi diventino sospettose e comincino a guardarci storto, fino a giungere ad inseguirci con pala o bastone alla mano.
Let’s take our Joy!
Non solo il comportamento però. Uno dei problemi fondamentali nel sopravvivere a Wellington Wells è fare attenzione al proprio livello di Gioia. Passo a spiegare: all’interno del paese, dovremo prendere spesso la nostra pastiglia di Gioia, altrimenti correremo il rischio di essere individuati da alcuni macchinari sparsi per le strade che suoneranno un allarme appena ci intercetteranno, nel momento in cui non avremo preso la “dose”. Oppure di essere inseguiti da dottori dall’aspetto decisamente inquietante, che nient’altro vorranno fare se non farci una bella iniezione.
Inoltre ci sono altri elementi da tenere in conto: se prenderete troppa Gioia, andrete in “overdose” (ci sarà un contatore che ne terrà conto e vi farà capire il livello di rischio), cosa che vi causerà un’amnesia e uno stato psicofisico che attirerà lo sguardo storto e insospettito dei cittadini. Se dovesse accadere, basterà nascondersi e attendere che l’effetto finisca. Se invece andrete in astinenza da Gioia, accadrà più o meno lo stesso. Per rimediare, dovrete o prendere una pastiglia, oppure attendere. Meccanica certamente interessante, ma forse non sfruttata troppo bene nelle sue potenziali sfaccettature, visto che il tutto si traduce comunque in un nascondersi ed attendere il termine dello “status negativo”.
Survival
We Happy Few ha anche delle meccaniche spiccatamente survival: la raccolta di risorse, il crafting di oggetti ed equipaggiamenti, i contatori di fame, sete e riposo. Tuttavia la sensazione generale è che questi elementi siano stati resi con un po’ di superficialità. Gli status negativi indotti dalla fame, dalla sete, dalla mancanza di riposo danno sì alcuni malus, ad esempio la quantità di resistenza (o stamina) disponibile che diminuisce, ma non peggiorano nel corso del tempo. In sostanza: si può finire il gioco senza mai mangiare, bere o dormire, considerato che gli effetti negativi non sono particolarmente inficianti. Bisognerà anche prestare attenzione all’abbigliamento: se in alcune missioni sarà richiesto di essere vestiti in uno specifico modo, dovrete anche cambiare abito a seconda della zona in cui vi trovate. Se per esempio uscirete nelle periferie, è vivamente consigliato indossare un abito stracciato, altrimenti scatenerete l’ira dei cittadini che vi identificheranno come uno di quelli che vivono tra i privilegi. Lo stesso viceversa.
Saranno disponibili in alcuni punti della mappa dei Rifugi da “conquistare”, con delle missioni secondarie molto brevi. Si tratta di edifici o sotterranei che potranno fungere da base, spesso attrezzati con letti, banco da lavoro e da farmacista (per realizzare alcuni oggetti specifici). Da questi, sarà possibile inoltre utilizzare il viaggio rapido, una volta scoperti e attivati.
Tra giorno e notte, ciò che è intorno a noi tende a cambiare drasticamente. C’è il coprifuoco, quindi agenti muniti di torce pattuglieranno le strade. Naturalmente voi non dovreste essere in giro, ma basterà muoversi con un po’ di attenzione per riuscire ad evitarli senza troppi problemi. Per fare ciò, ci sono diversi strumenti. Innanzitutto avremo la possibilità di vedere, anche da nascosti a giusta distanza, le “impronte” dei nemici che si muovono, per riuscire a calcolare la loro direzione. In base a questo potremo muoverci con facilità, ed eventualmente utilizzare degli oggetti per distrarli, come ad esempio lanciare delle bottiglie nella direzione opposta per attirare l’attenzione.
L’aspetto survival emerge anche nel combat system, estremamente semplice. Se dovesse capitare di arrivare alle mani (elementi evidentemente “secondario” nel gioco), potremo utilizzare un’arma rudimentale, come un ramo appuntito, una pala o altri oggetti che potremo raccogliere nel corso della nostra avventura. Attacco, attacco caricato, parata e spinta per sbilanciare sono le azioni che possiamo compiere.
C’è poco da gioire…
Anche se prendessimo la nostra pastiglia di Gioia, non potremmo purtroppo fare a meno di notare i grossi problemi che We Happy Few presenta nel comparto tecnico e nella giocabilità. Un vero peccato, viste le interessanti premesse narrative, che può inficiare un’esperienza altrimenti potenzialmente appagante. Partiamo parlando dei caricamenti: davvero troppo tempo passa dal il momento in cui si avvia il gioco, a quando effettivamente si riesce a prendere controllo del personaggio. Inoltre in alcuni momenti inaspettati, si sono avviate schermate di caricamento ingiustificate, non essendo nemmeno un momento di cambio di zona della mappa. Elementi questi purtroppo che possono facilmente infastidire il giocatore e scoraggiarlo.
A questo si aggiungono i problemi dei controlli, che si verificano soprattutto nell’interazione con gli oggetti, risultando approssimativi. Problema che non si verifica in fase di combattimento, ma solo perché non è un elemento del gioco particolarmente approfondito e al quale gli sviluppatori non hanno dato particolare attenzione, evidentemente. Il giocatori è comunque spinto ad utilizzare una tattica stealth, cosa però che fa emergere un altro problema: quello dell’IA. Purtroppo devo sottolineare che l’IA degli avversari è veramente di basso livello, risultando quindi in una sfida non particolarmente stimolante. Per fare un esempio: mi stavo nascondendo cercando di superare dei nemici e uno di loro mi ha visto. Mi è bastato lanciare una bottiglia al lato opposto della stanza, che questo improvvisamente si è distratto e ho potuto sgattaiolare via indisturbata. Insomma.
A livello grafico non siamo certamente davanti a qualcosa di eccelso, ma non ci aspettavamo certamente i miracoli. Tuttavia il risultato non è da elogiare: texture non particolarmente belle, con a volte difficoltà di caricamento. Modelli monotoni, sia delle persone che proprio dell’ambiente, e animazioni insufficienti. Spesso mi sono ritrovata in vicoli ripetuti ossessivamente nella struttura, che di certo non aiutano l’orientamento, anche se è presente una mappa consultabile in qualsiasi momento. E spesso ci si imbatte in compenetrazioni dei modelli o elementi/persone “fluttuanti”.
Purtroppo anche diversi bug sono presenti: almeno una volta il gioco è crashato senza motivo dopo un caricamento, inoltre diversi problemi ci sono anche con la localizzazione, con alcune traduzioni totalmente assenti, sia nei dialoghi che nei menu (il gioco è doppiato esclusivamente in inglese, ma ha i sottotitoli in italiano).
Eppure, nonostante ciò, l’atmosfera di Wellington Wells e dintorni riesce comunque a emergere, e questo è merito della direzione artistica e di quello che Compulsion Games è riuscita a creare a livello narrativo, che mi ha comunque colpito.
Ma molto da fare!
Si è vero ho appena snocciolato una bella serie di negatività presenti nel titolo. Tuttavia, esiste anche un contraltare in altri ambiti di We Happy Few. Nella mappa sono infatti presenti numerosissime missioni secondarie, affrontabili in qualsiasi momento, ed alcune davvero interessanti come contenuto, altre un po’ ripetitive. Inoltre sono presenti mercanti con cui commerciare e diversi punti di interesse da esplorare, con piccoli segreti e risorse utili da raccogliere, in questa sorta di open-world non particolarmente ampio, ma che risulta essere esteso il giusto, vista la densità.
Le storie dei personaggi sono tutte coinvolgenti, e nonostante la ripetitività di alcune attività da compiere, spingono il giocatore a proseguire. Vi ci vorrà comunque qualche ora di gioco per riuscire ad immedesimarvi e ad immergervi nell’atmosfera del titolo, che tuttavia, una volta imparatene le meccaniche, saprà anche ripagarvi con delle belle emozioni. Questo è anche aiutato dall’ottimo doppiaggio in lingua inglese e dal comparto sonoro, che nonostante qualche elemento di monotonia, crea l’atmosfera giusta.
Certo, non è semplice andare oltre a tutti i problemi tecnici elencati sopra, ma chi ci riuscirà si troverà davanti ad un’avventura originale ed intrigante, nonostante tutto. Anche se, cara Compulsion, si poteva fare di meglio.
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