Abbiamo dormito per 17 lunghi anni. Abbiamo dormito tanto, forse troppo, ma la colpa era della calamità… Una calamità rappresentata da capitoli dell’epopea di Hyrule vessati da tinte “serie”, da esigenze di mercato che portavano alla luce avventure in parte acerbe, o semplicemente dal timore di non farcela a staccarsi da meccaniche fin troppo ben oleate anche se ormai evidentemente logore.
Abbiamo dormito a lungo, é vero, ma alla fine ne é valsa la pena. The Legend of Zelda: Breath of the Wild é il miglior capitolo della saga zeldiana dall’anno 2000, da quel Majora’s Mask che impressionò tutti per la sua carica innovativa. Un ottimo titolo che con le sue macabre tinte, paradossalmente ci portò verso il sonno, l’oscurità, e a un distacco da un’eccellenza generale mai più sfiorata fino ad oggi nella serie. E ci voleva forse proprio una brezza selvaggia per poter riagguantare quell’eccellenza. Un vento che rimanda all’istinto puro legato alla voglia d’avventura. Un’impresa guidata dall’impulso di poter esplorare quel che si vuole, quando si vuole, distorcendo il più possibile le larghe linee guida impostate da chi quest’epica l’ha creata. Liberi come i cavalli senza padrone che vagano per le lande di Hyrule.
Un parto prodigioso che porta la firma di Hidemaro Fujibayashi, mente dietro più capitoli portatili di Zelda, che si era affacciato al filone principale della saga con lo sperimentale e non troppo riuscito Skyward Sword. Una mente diligente, attenta e delicata quella del director nipponico ex Capcom che, dopo aver testato una prima volta il filone madre, riesce ad erigere un capolavoro rivoluzionario e strepitosamente divertente. Un capitolo che rimarrà negli annali della cultura videoludica e che oggi vi voglio raccontare. Abbiamo dormito per 17 anni… ma alla fine ne é valsa la pena.
Una selvaggia leggiadria
Partendo dall’aspetto visivo, il nuovo titolo della casa di Kyoto risulta essere davvero ottimo in base alla console su cui é stato sviluppato, Nintendo WiiU. La ricchezza poligonale é molto buona, i paesaggi da visitare sono molto variegati, la fluidità dei movimenti di personaggi giocabili e non giocabili é eccellente e il ciclo giorno-notte, correlato a varie ed azzeccate intemperie meteorologiche, é semplicemente perfetto. A tenere insieme tutto questo ben di Dio, infine, ci pensa una grafica in cel-shading che strizza l’occhio nei suoi tratti morbidi alle opere di animazione dello Studio Ghibli.
Una grafica che, nella sua leggiadria di linee, si sposa perfettamente con una narrativa fiabesca, intelligente ed elegante. E allora ecco il villaggio del popolo Rito che si estende in verticale su un precipizio, ricordando come nidificano i veri uccelli sulle alture; ecco la cittadina dei Goron, fatta di pontili squadrati e di roccia estesa che ricorda la spigolosità di una possibile vita accanto ad un vulcano; ecco il regno degli Zora, composto da flessuosi scivoli d’acqua in pietra cristallina che ricalcano la flessibilità dell’elemento madre della stessa tribù.
Ci si trova quindi davanti ad una continua festa di colori, di riferimenti, di accorgimenti azzeccatissimi che tentano con successo di ricordare quanto la saga di Zelda sia più di una serie di videogiochi. Una festa che ci ricorda quanto la serie creata da Shigeru Miyamoto sia in realtà un vero e proprio evento. Purtroppo, nonostante tutta la cura riposta da Nintendo per arricchire la festa visiva di più fuochi pirotecnici possibili, ci si imbatte in alcune imperfezioni più o meno accentuate che ne scalfiscono leggermente il gran lavoro, senza però mortificarlo.
Ci si imbatte allora in qualche pop-up, in qualche calo di frame rate nelle zone più dettagliate e contro certi mostri, e in un troppo accentuato senso di solitudine per le lande di Hyrule. Senso di solitudine che, seppur giustificato dalla trama, fa a pugni con chi della concorrenza ha provveduto, anche se in maniera superficiale, a riempire la propria mappa di flora e fauna. Intendiamoci, ad ogni modo sono elementi che lasciano il tempo che trovano, visto il lavoro certosino dietro ogni minimo particolare di composizione e studio dell’immagine.
Un dungeon, tanti dungeons
Un aspetto in cui la saga non ha mai tradito le attese é sempre stato quello della giocabilità. In BotW però Nintendo si é superata, andando a disturbare capolavori indiscussi e indiscutibili come ad esempio Ocarina of Time. Tra un’implementazione certosina della fisica, dungeons, mini dungeons, missioni secondarie e libertà di scelta, ce n’é davvero per tutti i gusti, e si fatica veramente a staccare le mani dal controller per prendersi una meritata pausa. La libertà di scelta la fa da padrona nell’enorme mappa di gioco affrontabile anche tramite una cavalcatura, ma é regolata da varie leggi universali che fanno ben ponderare al videogiocatore quale zona scegliere se non é adeguatamente livellato per affrontarla.
Ed ecco quindi che scatta il domino di meccaniche di gioco che rendono il titolo ipnotico e ben orchestrato. Partendo da una base che vede il nostro eroe molto svantaggiato rispetto alla forza dei mostri che va ad affrontare, il giocatore si deve armare di pazienza e cercare delle fonti di energia che possano permettergli di avere la meglio sui tanti nemici. Qui entrano in gioco i piatti da cucinare, che reintegrano principalmente la forza vitale ampliandola anche provvisoriamente, e i sacrari, dei brillanti mini dungeons con enigmi e prove di forza, sparsi per tutta la mappa; questi ultimi, una volta completati, regalano energia permanente in più. Questa necessità di diventare sempre più forti porta così il giocatore ad esplorare e a innamorarsi della sfida propostagli. Una volta salito di livello, dunque, si potranno affrontare con molta più tranquillità tutte quelle zone che pullulano di nemici in precedenza troppo forti.
Non da meno, e ben concatenato a quanto detto, risulta il particolare approccio alle armi che si possono raccogliere qua e là per Hyrule: difatti le stesse possiedono un indicatore invisibile di durata oltre la quale vengono meno. Un indicatore che costringe il videogiocatore ad utilizzare gli strumenti di offesa più disparati nel ricco e curatissimo set di mosse da battaglia, tra schivate a rallentatore e salti in tutto, che lo porta a diversificare molto l’approccio ai nemici. Una diversificazione che oltretutto può vantare un parco armi davvero sfaccettato tra bastoni, lance, dardi di fuoco, boomerang taglienti, mazze pesanti, spadoni e chi più ne ha più ne metta. Inoltre, se in un primo momento la poca durabilità delle armi potrebbe preoccupare o infastidire, é appurato che si mettono al tappeto più nemici forti progredendo parallelamente; quindi, con l’incameramento di cuori tramite i sacrari e le ricette, si possono trovare armi più resistenti ed efficaci.
Un metodo assolutamente brillante, in ultima istanza, che giustifica in maniera molto intelligente la grande forza degli avversari, non fine a sè stessa solo per il gusto della sfida. Ma non é finita qui, visto che ogni sacrario completato (ma non solo) dà anche l’opportunità a Link, l’eroe della nostra storia, di raccogliere set di abiti e tute dagli effetti particolari nonchè speciali porta-vigore che gli permettono di aumentare la durata della rotellina ad esso dedicata, utile ad evitare i pericolosissimi raggi di alcuni nemici grazie alla corsa, e soprattutto quasi di vitale importanza per poter portare a compimento le scalate più soddisfacenti, oltre che incredibilmente realistiche, mai apparse in un videogame.
Nel particolare, infatti, tramite il consumo dell’indicatore del vigore, il giocatore deve studiare bene le pareti che vuole scalare e individuarne di conseguenza le sporgenze giuste per riposare e portare tatticamente in porto l’impresa. Un approfondimento, giustamente, però, meritano anche i già nominati sacrari con i loro micro enigmi, e i dungeons che sono presenti in ogni Zelda che si rispetti. Per cominciare, sia le dimensioni dei primi che dei secondi sono contenute in modo da favorire l’approccio portatile “mordi e fuggi” legato a una generazione di ragazzini cresciuti a pane e giochetti per cellulari, e ad una larga fetta di ragazzi e adulti ormai troppo impegnati da una vita frenetica. Abbiamo dunque alcuni sacrari formati da uno o due stanze che possono favorire una partitella da 15 minuti in tram, e dei dungeons veri e propri che non superano le otto-nove stanze. In ogni caso, gli enigmi all’interno degli stessi risultano più volte brillanti e risolvibili, oltre a poter essere completati per la prima volta (udite udite) con approcci multipli e sempre stimolanti per il videogiocatore.
Ad assisterlo nella risoluzione dei vari rompicapo ci pensano le tre nuove armi messegli subito a disposizione per questo nuovo episodio: Il Glacior, il Kalamitron, e lo Stasys, con il primo deputato ad erigere blocchi di ghiaccio su superfici liquide, il secondo ad attirare a sè oggetti dalla superficie metallica e il terzo, il più particolare, a fermare nel tempo oggetti e soggetti di varia natura, a cui si può imprimere una forza cinetica tramite dei colpi infertigli con armi di varia natura. Insomma, un vero e proprio cocktail effervescente di possibilità ed esaltazione.
Per quanto concerne invece il paragrafo legato alle missioni secondarie, anche qui ci troviamo di fronte ad una sfida ricchissima e variegata: le richieste dei vari personaggi non giocanti si mescolano tra di loro nelle modalità di esecuzione in maniera esauriente e coinvolgente. Avremo a che fare, snocciolandone un po’, con corse con i propri destrieri, ricerche di insetti e ingredienti per preparare pozioni efficaci e piatti prelibati, enigmi musicali, percorsi in cui bisogna accendere delle fiaccole entro un tempo limitato e così via. A proposito di npg, di bestiario e mostri vari, anche in questo aspetto il gioco dimostra la sua cura nel dettaglio e la voglia di essere vivo anche oltre i propri limiti, proponendo individui che vanno a letto durante la notte, che ingaggiano lotte quando vengono attaccati da diversi nemici, e che a volte si dimostrano diversi da ciò che sembrano, stupendo così il giocatore. I mostri, invece, oltre ad essere abbastanza ben variegati, dal canto loro reagiranno all’ambiente in maniera credibile e a volte sorprendente, per esempio ballando in gruppo intorno a un fuoco, raccogliendo le armi lasciate sulla rastrelliera e avvantaggiandosi con pietre e sassi raccolti da terra, da scagliare contro il nemico una volta sprovvisti delle proprie mazze o armi bianche. Uno spettacolo.
Infine da collante a tutto questo immenso splendore ci pensa, come già accennato ad inizio paragrafo, una fisica sopraffina che permetterà, tra l’altro, di far rotolare fluentemente massi lungo i pendii, che attirerà i fulmini su ogni oggetto metallico e che permetterà, tramite dei fuochi accesi per l’occasione, di creare correnti ascensionali. Se proprio si volessero evidenziare dei punti deboli a tanta forza contenutistica, nonostante una tale mole di lavoro ben fatto farebbe passare per buoni anche errori più macroscopici, abbiamo una mappatura dei comandi forse un po’ troppo articolata e non propriamente intuitiva, e delle boss fight che non riescono ad essere propriamente così esaltanti, pur fregiandosi di qualche accorgimento davvero interessante e legato allo sfruttamento dell’arsenale a disposizione. Insomma, ne abbiamo viste in Zelda di battaglie epocali e non é oro tutto quello che luccica, ma qui di falso c’é davvero ben poco.
Un tutt’uno narrativo
Differentemente dalla concorrenza, la narrativa di The Legend of Zelda: Breath of the Wild sfrutta il concetto stesso di sandbox e di libertà tramutandolo in storia. Il concetto di libertà e del “tutto é possibile subito” concernente il gameplay é legato ad una narrativa che mette l’accento sul conflitto finale con l’antagonista principale. Questa dinamica narrativa, agli occhi del videogiocatore, abituato a sbloccare di volta in volta, con ordine, incipit, parte centrale e finale, che vede giustamente come parti singole di un racconto, fa sì che venga fagocitato immediatamente in un lungo epilogo.
Non essendoci quindi di base una progressione della storia ben distinta da varie parti da sbloccare bensì un prolungamento finale con all’interno varie azioni e compiti da poter svolgere a piacimento, si ha la sensazione che la storia sia cristallizzata in un unico blocco narrativo, diventando essa stessa una “sandbox”. Nella stessa agiscono personaggi ben caratterizzati che, grazie anche al buon doppiaggio in italiano (Pietro Ubaldi!), riescono a risultare tridimensionali (ora simpatici, ora antipatici) agli occhi del videogiocatore. La parte debole del racconto, invece, risiede in cutscenes forse troppo eleganti e poco pompate d’epica che, in un gioco basato su gesta cavalleresche, nonostante le si sia trattate in tutte le salse, ancora non dovrebbero mollare di un centimetro per intensità.
I suoni della natura
Per quanto concerne il sonoro, le musiche orchestrate e strumentali accompagnano abbastanza bene le immagini a schermo, risultano curiosamente minimali nelle vaste pianure e terre di Hyrule. Poche note alte e basse al piano che favoriscono più che altro l’ascolto dei suoni della natura, in modo tale da essere abbastanza in linea con quello che é il sottotitolo del gioco. Una punta di incertezza però valica la mente in questo senso, purtroppo, dato che non si é propriamente sicuri che le musiche minimali, legate all’esplorazione delle terre di connessione tra i vari villaggi del regno di Zelda, siano così povere forse per non favorire la noia nei confronti delle stesse a causa della grandezza della mappa.
I toni musicali, invece, subiscono un innalzamento marcato quando si affrontano i dungeons principali, durante i frammentari ricordi di Link delle vicende antecedenti al suo riveglio e nel mentre delle boss battle. Infine abbiamo una campionatura dei suoni ambientali e non semplicemente perfetta, con cinguettii, versi animali di varia natura perfettamente dislocati, stridii ed effetti di lame e superfici delle più disparate decisamente puntuali.
In generale, pur facendo il suo lavoro attentamente, similmente alla parte narrativa anche la parte audio manca di un’epica davvero ad ampio respiro. Quell’epica che renderebbe il tutto semplicemente perfetto. Un po’ un peccato.